Squillano nuovamente le trombette di Palazzo Piacentini. Dopo l’annuncio dell’informatizzazione degli archivi delle procure, il giovane Angelino assesta un nuovo colpo basso alla dea Themis nella versione riveduta e corretta del disegno di legge sulle intercettazioni: tetti di spesa per le procure, tempi ridotti per l’ascolto - non più di 45 giorni, prorogabili di altri 15, eccezion fatta per i reati di mafia e terrorismo - e (il gran finale) intercettazioni solo per “gravi indizi di colpevolezza”. Ciò significa che se prima le intercettazioni venivano fatte anche solo per indizi di reato - ovvero si ascoltava chiunque potesse essere connesso in qualsiasi modo al reato - ora si potranno seguire le conversazioni solo di chi si sospetta abbia realmente commesso il reato: ma se il controllo delle utenze serve principalmente a dipanare i dubbi sulla colpevolezza, come si può ascoltare il sospettato senza ascoltare il suo interlocutore, che magari sospettato non è (o non lo era fino a quel momento)? Misteri di casa nostra, che però non smentiscono l’idea che questo cambiamento nel codice sia ben più e ben altro rispetto a una semplice modifica di forma.
Ma non è tutto: i giornalisti che pubblicheranno le intercettazioni saranno puniti con 30 giorni di carcere o con una multa dai duemila ai diecimila euro, mentre le vocine che ai giornalisti offrono il materiale non vengono citate; in più, dall’elenco dei reati intercettabili sono stati depennati l’insider trading e l’aggiotaggio, quei reati da mezze calzette che hanno fatto scoppiare i casi Parmalat e Cirio, che non si sa mai cosa riserva il futuro per chi specula in Borsa. A onor del vero, si potranno però intercettare tutti i reati con pene superiori ai cinque anni - invece che i dieci invocati a gran voce da Padron’ Silvio - più alcune eccezioni come la pedopornografia, il contrabbando, i delitti contro la pubblica amministrazione e i reati concernenti droga e armi. Intercettabili poi anche i reati d’ingiuria, minaccia, usura, abusiva attività finanziaria e stalking.
L’Associazione Nazionale Magistrati insorge: “Con queste modifiche s’indebolisce uno strumento investigativo indispensabile per individuare i responsabili di gravi delitti”. Ma la Cassazione, aprendo l’anno giudiziario, si dimostra più morbida e, in apparente accordo con i progetti del guardasigilli, sottolinea con il primo presidente Vincenzo Carbone, la volontà di istituire un “utile archivio riservato delle intercettazioni, che sia accessibile solo al pm e all’avvocato”. Crediamo tutti nella buona fede del nostro giovane ministro, che già ha espresso la sua più totale abnegazione nella causa di modernizzazione e perfezionamento della giustizia italiana, ma lo scandalo strillato in questi giorni dalle colonne di maggiori quotidiani ci spinge a dubitare sulle reali intenzioni di via Arenula.
Lo scalpore è stato provocato dalla presunta esistenza dell’archivio segreto di un certo Gioacchino Genchi, un consulente giudiziario richiestissimo per la sua capacità di incrociare i tabulati telefonici. Secondo le cornacchie della stampa mainstream, Genchi avrebbe collezionato una quantità inimmaginabile di dati in cui, a detta de il Giornale (di regime), “alla fine tutti conoscono tutti e tutti sono accusabili di tutto”. Quello che però si dimentica di dire è che i contatti telefonici di cui il fantomatico esperto è in possesso sono stati acquisiti non per libera iniziativa dell’interessato, ma bensì su richiesta delle procure nell’ambito di due particolari inchieste giudiziarie, “Why not” e “Poseidone”, che tanto sembrano urticare la nostra limpidissima élite politica.
A deporre a favore di Genchi - ma probabilmente è proprio questo il punto - c’è il fatto che i suoi incroci telefonici hanno permesso di catturare e assicurare alla giustizia gli esecutori della strage di via D’Amelio, oltre che a scoprire che le utenze di molti malavitosi calabresi erano intestate a un parlamentare nazionale. Lo stesso Genchi ha poi elaborato, sempre su sollecitazione delle procure distrettuali, i dati che hanno portato all’istruzione dei più importanti processi di collusione tra politica e mafia, Dell’Utri e Cuffaro compresi. L’abuso delle intercettazioni è certamente una colpa grave, ma sembra che il concorso tra Genchi e De Magistris rimandi a scenari più delicati.
Dateci pure dei paranoici ma la relazione, come usava dire il buon Maurizio Crozza alla fine del suo show, non è chiara. Salvatore Borsellino, fratello del defunto giudice, ha provato a spiegarlo durante la scorsa manifestazione promossa in favore delle vittime della mafia, ma si è preferito riportare solo l’abituale sproloquio di Di Pietro sulla letargia costituzionale del nostro capo di Stato. Il perché di questa concomitanza all’interno dell’informazione nostrana ci sembra invece chiarissimo.