Stampa
Categoria principale: Articoli
Categoria: Esteri

Il protrarsi del conflitto in Ucraina rischia di mettere seriamente in crisi il sistema di finanziamento occidentale delle operazioni belliche del regime di Zelensky. I malumori in Europa sono evidenti da tempo, ma potrebbero essere le divisioni crescenti tra la classe politica americana a determinare nel breve periodo un rallentamento del flusso di armi e denaro diretto verso Kiev. La maggioranza repubblicana alla Camera dei Rappresentanti di Washington continua infatti a mandare segnali piuttosto espliciti alla Casa Bianca, come la recente richiesta di fare chiarezza sulla destinazione e l’utilizzo degli aiuti recapitati finora all’ex repubblica sovietica.

 

Il presidente della commissione di indagine della Camera bassa del Congresso, il deputato del Kentucky James Comer, ha inviato qualche giorno fa una comunicazione ufficiale all’amministrazione Biden per ottenere tutti i documenti e le comunicazioni interne relative ai “programmi di assistenza economica al governo Ucraino”, assieme a qualsiasi genere di materiale che abbia a che fare con “gli sforzi anti-corruzione”.

Sono stati parecchi in questi mesi gli articoli e i rapporti che hanno raccontato del buco nero ucraino, nel quale sono letteralmente svaniti armi e miliardi di dollari. Della cifra colossale stanziata finora per l’Ucraina dagli Stati Uniti – circa 113 miliardi di dollari – non è chiaro quanto denaro e materiale bellico sia stato effettivamente utilizzato per gli scopi stabiliti dalla Casa Bianca. L’iniziativa repubblicana punta così a ricostruire il percorso degli aiuti, basandosi anche sui giudizi poco ottimistici che organi della stessa amministrazione democratica hanno espresso pubblicamente a proposito dell’Ucraina.

L’ispettore generale del Pentagono, ad esempio, in un rapporto di gennaio aveva avvertito che il dipartimento della Difesa non era in grado di monitorare l’impiego finale degli aiuti, come previsto in teoria dalle proprie linee guida. In molti hanno proposto il confronto con la situazione in Afghanistan, per due decenni caratterizzata da un clima corruttivo endemico alimentato dagli stessi finanziamenti americani. Per comprendere le implicazioni attuali basti considerare il fatto che dal 2001 al 2021 i governi succedutisi a Washington hanno speso 146 miliardi di dollari per l’Afghanistan, mentre l’Ucraina, come già accennato, ne ha già ricevuti 113 in poco più di dodici mesi.

La lettera del deputato Comer non ha in ogni caso trovato impreparati i vertici dell’amministrazione Biden. Fin dalla vigilia delle elezioni di metà mandato del novembre scorso, la leadership repubblicana aveva sollevato il problema dei continui “assegni in bianco” inviati al regime di Zelensky. Con il peggiorare degli scenari economici interni, nel pieno dello scontro per l’innalzamento del tetto del deficit federale e in parallelo all’incupirsi delle prospettive per l’Ucraina, il momento della resa dei conti sui finanziamenti a Kiev sembra insomma essere vicino.

Il deputato repubblicano della Florida, Matt Gaetz, ha recentemente presentato una risoluzione, sponsorizzata da altri dieci colleghi della Camera, per interrompere tutti gli aiuti finanziari e militari all’Ucraina, nonché per chiedere un cessate il fuoco e l’avvio di una trattativa diplomatica tra Mosca e Kiev. Per il momento è l’ala destra del Partito Repubblicano ad agitarsi per limitare o fermare del tutto l’invio di armi all’Ucraina. La maggior parte dei repubblicani e quasi tutti i democratici sono invece sulla linea della Casa Bianca.

Quantitativamente, i contrari alla politica ufficiale degli Stati Uniti non rappresentano dunque una forza consistente, ma ci sono però vari fattori da considerare. Il primo è che un numero crescente di americani si oppone al coinvolgimento del loro paese nelle vicende belliche nonostante la propaganda guerrafondaia amplificata praticamente da tutti i media ufficiali. Inoltre, il probabile favorito per la nomination repubblicana in vista delle presidenziali del 2024, ovvero Donald Trump, ha già cavalcato l’onda anti-bellica scommettendo su un ulteriore logoramento del sostegno a Kiev nei prossimi mesi.

La destra libertaria del Partito Repubblicano ha infine ottenuto una serie di concessioni a inizio anno in cambio dell’appoggio alla candidatura a “speaker” della Camera di Kevin McCarthy. Grazie a ciò, un numero limitato di deputati può esercitare una certa influenza sulle scelte legislative del partito di maggioranza, con implicazioni soprattutto sul fronte degli stanziamenti. Perciò, come ha scritto in questi giorni l’ex diplomatico e analista britannico Alastair Crooke, oltre e forse più ancora che sul campo di battaglia, “l’esito del conflitto ucraino potrebbe essere alla fine deciso dalla guerra interna alla classe politica americana”.

Pace e garanzie NATO

Nervosismo e impazienza per la crisi ucraina non sono comunque un’esclusiva americana. Anche in Europa, dietro l’apparente compattezza, circolano idee per cercare una via d’uscita in tempi brevi o, quanto meno, prima che gli effetti delle (auto-)sanzioni finiscano per devastare economicamente il vecchio continente. Le indicazioni in questo senso sono ormai molteplici e si riflettono in un tono generalmente più pessimistico rilevabile nella stampa “mainstream”.

Dalla rivelazione di Seymour Hersh sull’esplosione del gasdotto Nord Stream al rapporto della RAND Corporation sui rischi di un conflitto prolungato, dalle previsioni riviste al rialzo del Fondo Monetario Internazionale (FMI) per l’economia russa agli avvertimenti anche in sede NATO sul rapido svuotamento dei depositi di armi in Occidente, il trend risulta evidente, tanto da fare credere che possa essere finalmente intrapreso un percorso verso l’accettazione della realtà. Che ciò abbia effetti positivi sulla crisi ucraina è però tutt’altro che certo.

Un esempio significativo sembra essere un recente articolo del Wall Street Journal che, a prima vista, appare incoraggiante. Secondo il giornale di Murdoch, alcuni leader europei si sarebbero rivolti “in privato” a Zelensky in termini molto diversi da quelli ufficiali. In sostanza, Macron, Scholz e altri avrebbero spiegato al presidente ucraino che il suo paese non è in grado di sconfiggere la Russia sul campo, invitandolo a promuovere colloqui di pace con Mosca, così da ricevere in cambio garanzie di sicurezza, vale a dire legami più stretti con la NATO.

Anche in questo caso il problema è la sostenibilità di un conflitto di “attrito” nel quale il fattore tempo è in larga misura favorevole alla Russia. Resta da vedere se i leader europei riportino a Zelensky un’opinione della Casa Bianca, dal momento che le decisioni sul conflitto vengono prese quasi esclusivamente a Washington. Il nodo della questione è tuttavia un altro. Per semplificare: l’Occidente sta prendendo atto della sconfitta inevitabile dell’Ucraine (e della NATO) per mano della Russia, ma, come soluzione, propone un negoziato partendo da un assunto totalmente inaccettabile per il vincitore.

L’analista indipendente Alexander Mercouris ha fatto notare come la proposta dell’Europa, consegnata direttamente a Zelensky, non rappresenti per Mosca un’ipotesi diplomatica da esplorare, bensì un incentivo a proseguire la guerra. Il punto centrale della tesi di Macron e Scholz poggia su un esito del conflitto che ratificherebbe lo scenario alla base della decisione russa di intraprendere un’operazione militare in Ucraina. Una delle richieste-chiave di Putin prima del 24 febbraio 2022 per evitare la guerra era appunto la garanzia della sostanziale neutralità di Kiev, così che la prospettiva di una partnership più stretta con la NATO in caso di cessazione delle ostilità è una condizione irricevibile per il Cremlino.

Se l’Occidente e l’Ucraina dovessero convergere su questa posizione, è altamente probabile che la Russia deciderà di proseguire e intensificare l’offensiva. L’obiettivo della demilitarizzazione dell’Ucraina potrebbe cioè essere ottenuto solo sul campo, visto che, secondo la proposta riportata dal Wall Street Journal, le condizioni per la pace implicherebbero un’ulteriore massiccio trasferimento di armi al regime di Kiev e, di fatto, la fine della neutralità di questo paese. La Russia, spiega ancora Mercouris, preferirebbe perciò continuare a fronteggiare sul campo “un avversario indebolito” piuttosto che avere a che fare “in futuro con un’Ucraina rafforzata” militarmente dalla NATO.

L’ostacolo Ungheria

Un’altra complicazione per il fronte NATO, collegata direttamente alle divisioni tra gli alleati attorno alla guerra in Ucraina, è il processo di ratifica delle candidature di Finlandia e Svezia. Per formalizzare l’ingresso dei due paesi nordici nel Patto Atlantico è necessario il voto favorevole di tutti e 30 i paesi membri. Finora, gli unici due a non essersi ancora espressi sono Turchia e Ungheria. Le riserve di Ankara riguardo soprattutto la Svezia sono note da tempo. Per Budapest, invece, sembrava essere una questione di tempo e con il nuovo anno l’approvazione del parlamento avrebbe dovuto arrivare senza eccessive complicazioni.

Negli ultimi giorni è emerso invece un ostacolo di natura politica che potrebbe allontanare ancora di più la data dell’adesione ufficiale alla NATO di Helsinki e Stoccolma. Il governo Orban nei giorni scorsi ha fatto sapere che il suo paese necessità di più tempo per valutare le due candidature, poiché entrambi gli aspiranti NATO hanno in passato denunciato la deriva anti-democratica dell’Ungheria in maniera “totalmente menzognera”.

Per il momento, l’agenda del parlamento di Budapest prevede un possibile voto definitivo dopo la metà di marzo, ma non sono da escludere ulteriori sorprese. Nonostante le rassicurazioni di Orban, d’altra parte, il suo governo continua ad avere posizioni molto critiche nei confronti delle politiche anti-russe di UE e NATO ed è del tutto possibile che il premier ungherese decida di sfruttare la vicenda per forzare almeno un parziale cambiamento di rotta sulla guerra in Ucraina.