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Categoria: Esteri

In un insolito intervento pubblico, qualche giorno fa il presidente israeliano, Isaac Herzog, ha avvertito i suoi connazionali che lo Stato ebraico sarebbe “sull’orlo del collasso sociale e costituzionale”. L’allarme si riferisce al durissimo scontro in atto sulla “riforma” della giustizia che il nuovo governo di destra ed estrema destra intende approvare in tempi brevi. Le misure in discussione nel parlamento di Israele (“Knesset”), accolte con manifestazioni oceaniche di protesta nelle ultime settimane, minacciano seriamente il principio di indipendenza della magistratura e rientrano nel disegno ultra-reazionario del gabinetto del premier Netanyahu.

 

Uno dei due punti centrali e più controversi della “riforma” è la sostanziale eliminazione della facoltà della Corte Suprema israeliana di abrogare le leggi giudicate incostituzionali. Le sentenze di questo tribunale potranno cioè essere annullate con un voto a maggioranza semplice della “Knesset”. L’altra questione che ha provocato accese proteste è la variazione della composizione dell’organo che in Israele seleziona e nomina i giudici, così da dare maggiore potere di scelta al governo.

La nuova legge ha superato il primissimo ostacolo in parlamento lunedì, quando è stata approvata con nove voti a favore e sette contrari nell’apposita commissione della “Knesset”. Lo stesso giorno, quasi 100 mila manifestanti hanno protestato contro la “riforma” Netanyahu a Gerusalemme, mentre altre dimostrazioni anti-governative sono andate in scena a Tel Aviv, Herzliya e in altre città. Quella di lunedì è stata la settima manifestazione di massa contro il governo e ha seguito di appena due giorni un altro evento a cui avevano partecipato decine di migliaia di persone. Alcuni sondaggi hanno d’altronde dimostrato come circa il 60% degli israeliani vorrebbe che la “riforma” della giustizia promossa dal governo fosse ritirata o quanto meno sospesa.

Nonostante le pressioni e il livello di opposizione nel paese, Netanyahu e i suoi partner di maggioranza non sembrano per il momento avere nessuna intenzione di rallentare. Anche l’appello del presidente Herzog a rinviare il voto della commissione è stato ignorato e, se l’iter legislativo non dovesse incontrare ostacoli, la legge sarà approvata in via definitiva dopo tre letture in aula, di cui la prima prevista già questa settimana.

La determinazione con cui il governo Netanyahu promette di agire in ambito giudiziario riflette la natura della maggioranza che sostiene il premier. Il Likud, per tornare al potere, ha sottoscritto un’alleanza con elementi ultra-radicali se non apertamente fascisti. Netanyahu si ritrova così a implementare un’agenda scritta dall’estrema destra sionista e che si basa sul consolidamento del primato ebraico, nonché del conseguente sistema di apartheid imposto alla popolazione palestinese. Il cambiamento drammatico del sistema legale israeliano si accompagna, almeno nelle intenzioni, ad altre iniziative estreme e oggettivamente illegali dal punto di vista del diritto internazionale, come l’annessione della Cisgiordania, l’apertura alla preghiera degli ebrei dell’area della Moschea di al-Aqsa a Gerusalemme e l’intensificazione della repressione della resistenza palestinese.

Il governo e i partiti di maggioranza hanno in pratica respinto anche gli inviti al dialogo dell’opposizione per valutare possibili modifiche alla “riforma” della giustizia. Un commento alla situazione politica del quotidiano Times of Israel ha riassunto i motivi della fermezza di Netanyahu e dei suoi alleati, ben decisi ad andare fino in fondo per sfruttare “una concatenazione di fattori quasi unica”, ovvero una finestra “che potrebbe non riaprirsi mai più nel corso delle loro carriere politiche”. Il fallimento del governo allargato, guidato dagli ex premier Bennett e Lapid, e il voto che era seguito a fine 2022 hanno prodotto cioè “una coalizione unitaria di ultra-destra”, installato un primo ministro favorevole alla legge sulla giustizia, anche per risolvere i suoi guai giudiziari personali, e collocato nei posti chiave della “Knesset” e del governo “i più fermi sostenitori dei piani” di riforma. Ritrovandosi in questa situazione pressoché unica, continua l’articolo, i leader della maggioranza “non temono l’opposizione, bensì il rallentamento” del percorso legislativo della riforma stessa.

Alle manifestazioni anti-governative partecipano puntualmente tutti i principali esponenti dell’opposizione, fino a pochi mesi fa al governo. L’ex premier Lapid o l’ex ministro della Difesa, Benny Gantz, ricorrono ad esempio frequentemente a una retorica apocalittica che evidenzia un’opposizione in apparenza ferocissima ai piani di Netanyahu. I giornali israeliani non esitano a loro volta a parlare di rischio guerra civile nel paese, mentre alcuni esponenti del governo sono arrivati a chiedere l’arresto per tradimento dei leader dell’opposizione.

La deriva dello Stato ebraico, di cui l’attuale governo è un sintomo chiarissimo, è però in gran parte il risultato dell’aperta promozione di politiche repressive e ultra-reazionarie da parte di quasi tutto il panorama politico israeliano. Lo stesso governo precedente includeva forze relativamente moderate e addirittura un partito palestinese, ma allo stesso tempo i partiti della destra sionista erano molto ben rappresentanti. L’attività dell’esecutivo Bennett-Lapid, sia pure di breve durata, conferma in pieno questa realtà, largamente responsabile del ritorno al potere del Likud e di Netanyahu in alleanza con le frange più estreme del fondamentalismo religioso. Basti pensare che il numero di palestinesi uccisi nel 2022 dalle forze di sicurezza israeliane è stato il più alto da quasi due decenni a questa parte.

Forze politiche con simili precedenti non hanno evidentemente alcuna credibilità democratica. Inoltre, molti esponenti dell’opposizione oggi in piazza contro Netanyahu hanno fatto parte in passato di governi guidati dall’attuale premier, da Lapid a Bennett, da Gantz a Gideon Sa’ar. Le preoccupazioni di questi ambienti politici sono da collegare agli effetti destabilizzanti, per un sistema già in profonda crisi, che derivano dallo strapotere dell’estrema destra.

Un primo ministro sotto accusa per corruzione, dipendente da alleati fascisti e impegnato a smantellare anche formalmente l’architettura “democratica” dello Stato ebraico rappresenta in altre parole un rischio enorme sia sul fronte interno sia sul piano internazionale. Nel primo caso i pericoli – già più che evidenti – sono il radicalizzarsi delle proteste di piazza e il rafforzarsi della resistenza palestinese. Non solo, Lapid e gli ex alleati mettono in guardia dai danni economici che la linea dura di Netanyahu sta provocando e potrebbe ulteriormente provocare. La già ricordata analisi del Times Of Israel citava a questo proposito la sospensione di investimenti dall’estero di svariate multinazionali in conseguenza delle azioni del governo.

Per quanto riguarda invece il contesto regionale, l’opposizione israeliana teme seriamente il complicarsi delle relazioni con gli Stati Uniti. L’amministrazione Biden ha da parte sua espresso qualche timida riserva nei confronti della “riforma” della giustizia in discussione. Al di là dei finti scrupoli democratici per uno stato che opera quotidianamente in violazione del diritto internazionale e che calpesta i diritti umani, Washington vede con estrema ansia gli sviluppi di queste settimane, poiché potrebbero far precipitare la situazione per Israele e mettere a rischio la stabilità di un riferimento fondamentale per gli interessi strategici USA in Medio Oriente.

Da politico notoriamente pragmatico, è comunque del tutto possibile che Netanyahu nutra più di una perplessità nei confronti dell’agenda radicale dei suoi alleati, non tanto per questioni di principio quanto appunto per ragioni di opportunità politica. La sua sopravvivenza politica dipende però proprio da queste forze ultra-reazionarie, senza il cui appoggio il suo governo finirebbe per crollare. Non è da escludere peraltro che Netanyahu e la Casa Bianca stiano negoziando un qualche accordo che includa l’appoggio di Washington a Tel Aviv riguardo all’Iran e alla normalizzazione con i paesi arabi in cambio di un passo indietro dalle politiche anti-palestinesi più estreme, così da convincere l’ultra-screditata Autorità Palestinese a collaborare con Israele ed evitare l’esplosione di una nuova “Intifada”.

Tutto da verificare sarà dunque se Netanyahu riuscirà a risolvere il dilemma senza subire i contraccolpi politici di un eventuale affrancamento dalla destra ultra-ortodossa e razzista e, soprattutto, senza far precipitare la crisi economica e sociale che sembra incombere sullo Stato ebraico.