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A conferma di come il sistema politico statunitense abbia partiti, congressisti e presidenti interscambiabili e che le differenze che corrano tra essi siano sostanzialmente tattiche e legate ai rispettivi gruppi d’interesse, arriva lo scandalo che rischia di sommergere Biden. Sembra infatti che quello di trafugare documentazione ufficiale, soprattutto se etichettata come sensibile, e portarsela a casa, non sia solo un vizietto dell’ex presidente statunitense, Donald Trump. Risulta per l’appunto che anche l’attuale inquilino della Casa Bianca usi sottrarre documenti riservati dalle sedi istituzionali e trasformarli in suo archivio personale.

Il materiale classificato risale al periodo in cui l’attuale inquilino della Casa Bianca ricopriva l’incarico di vice-presidente. La vicenda ricorda da vicino quella in cui è invischiato Donald Trump, anche se le circostanze appaiono in parte diverse. Ma certamente diversa è la procedura adottata: nel caso di Trump si è proceduto con rapidità e durezza encomiabili, nel caso di Biden (scoperto il 2 Novembre e tenuto all’oscuro fino ad ora) con lentezza, ingiustificati ritardi ed omissioni.

 

I file secretati, persino classificati come “top secret”, ossia il massimo della riservatezza negli atti pubblici, risalgono al periodo della presidenza Obama, quando Biden era il vicepresidente. Sono documenti apparsi in tre luoghi e momenti diversi e, come ricorda Edward Sowden, “sono stati volutamente tacitati per non danneggiare Biden alle elezioni di middle-term dello scorso Novembre.

Una domanda rimane per il momento senza risposta, ma non può essere evitata: l'ex vicepresidente ha messo le mani su dossier scottanti in ogni angolo del mondo e sui temi più disparati, senza alcun interesse a mantenerli privati. Quali sono gli argomenti che Biden considera di una riservatezza così assoluta da volerli tenere lontani da occhi indiscreti?

Ci sono fondate ragioni che indicano nel tentativo di coprire soprattutto “l’affaire Ucraina” da parte di Biden una possibile ipotesi investigativa. E’ noto, infatti, come l’allora vicepresidente USA intervenne personalmente in difesa del business del figlio Hunter, personaggio noto per la sua “disinvoltura” nella sua vita privata e negli affari al riparo del potere di famiglia. Addirittura, secondo una velina CIA, il vicepresidente USA – che effettuò 6 viaggi ufficiali in Ucraina in 4 anni - intervenne direttamente sull’allora presidente ucraino Poroshenko, minacciando di bloccare i 4 miliardi di Dollari USA previsti per un aiuto straordinario a Kiev se non fossero cessate le complicazioni burocratiche che ritardavano gli affari di Hunter Biden.

Nel bel mezzo della crisi politica ucraina del 2014, il figlio dell’allora vicepresidente ha fatto parte del consiglio di amministrazione della compagnia ucraina attiva nel settore del gas Burisma Holdings, con sede a Kyiv e registrata a Cipro stipendio mensile di 50.000 dollari percepito da Hunter Biden fino ad aprile 2019 senza mai chiarire il suo ruolo all’interno dell’azienda ucraina. Dal canto suo, una volta eletto Trump avrebbe fatto pressioni sull’omologo ucraino affinché “avviasse o continuasse un’indagine sulle attività dell’ex vicepresidente Joe Biden e di suo figlio, Hunter Biden”.

Insomma siamo nel pieno di un “affaire” che ricorda come nella politica statunitense l’utilizzo a fini privati di documenti elaborati da strutture pubbliche sia abitudine consolidata e non un episodio. Ma sarebbe fuorviante assegnare tale costume alle rispettive condizioni psichiche, certo meritevoli di attenzioni specialistiche: farlo porterebbe fuori strada e ridurrebbe a barzelletta quello che invece è uno dei problemi storici della politica nord americana, ovvero il dossieraggio ai danni degli avversari politici.

Il raccogliere prove, documentazione e testimonianze sulla condotta dell’avversario politico è, come si sa, elemento permanentemente presente nella politica USA. In assenza di una battaglia tra ideali diversi, programmi alternativi tra loro e uomini con carature opposte, lo scontro è demandato alle operazioni di discredito dell’avversario, preferibilmente costruite su una attività di spionaggio della sua vita privata e delle sue mosse politiche. Da Kennedy a Gary Hart vi sono innumerevoli esempi di come la corsa alla casa Bianca sia stata influenzata dai dossieraggi messi in atto dai competitori e con l’aiuto di membri dell’intelligence che per denaro o in cambio di promesse di carriera mettevano a disposizione per le operazioni di spionaggio e di discredito. Ha fatto scuola lo scandalo Watergate, ovvero il complotto messo in atto da Richard Nixon per spiare il candidato democratico; un caso divenuto emblematico, che cinema e pubblicistica hanno reso simbolico.

A questo proposito non è un mistero il ruolo opaco delle decine di strutture che affiancano le forze armate, la polizia civile e militare e la Guardia Nazionale nella difesa della sicurezza nazionale. I Servizi Segreti si occupano in buona sostanza della difesa del Presidente e del suo intorno e svolgono quindi un ruolo “minore” rispetto a quelli di altri paesi. Ma oltre alla CIA, al FBI e alla NSA, vi sono 17 agenzie e organizzazioni che compongono la United States Intelligence Community, istituita da Ronald Reagan nel 1981. Il suo Direttore, che si preveda abbia esperienza nell’intelligence militare, è nominato dal presidente con la ratifica del Senato. Le 17 agenzie che compongono la United States Intelligence Community, agiscono separatamente o congiuntamente per condurre attività di intelligence considerate necessarie, ovvero per lo spionaggio e il controspionaggio e l’attività di controllo tanto dei paesi alleati come degli avversari e dei nemici.

E’ abbastanza evidente come i vertici delle istituzioni deputate all’Intelligence siano legati alla presidenza di turno e di come quindi, con l’avallo del Procuratore Generale di Giustizia, le inchieste destinate a colpire gli avversari politici trovino una corsia preferenziale. La formazione della classe dirigente statunitense è in primo luogo costituita dalla capacità di saper manovrare tra i veleni di Washington: la capacità di saper costituire una cintura di sicurezza investigativa e mediatica a copertura delle attività censurabili dei presidenti è la più importante delle caratteristiche richieste e strapagate in uso a Washington.

Tralasciamo per ora l’ipocrisia di una classe dirigente come quella USA che si autonomina vestale della libertà mentre invade e bombarda altri Paesi, che prega dio mentre manda a uccidere, accusa il mondo intero di corruzione mentre corrompe il suo paese fino al midollo e mette all’indice per ridotto tasso di democrazia i paesi avversari mentre vende la sua politica agli interessi dei consorzi bancari e industriali. La domanda che invece bisognerebbe farsi è una ed è tutto sommato semplice: perché su un candidato alla presidenza piovono miliardi di dollari? Dato che la filantropia non si lega alla politica, in che modo, se eletto, dovrà restituire tanta generosità da parte dei suoi finanziatori?

Un antico refrain latinoamericano dice che quando un presidente si compra un paese è buona norma chiedersi chi si è comprato il presidente. Mai, come nel caso degli Stati uniti, il suddetto refrain trova migliore esemplificazione. Basta dare uno sguardo alle modalità di finanziamento delle campagne elettorali, che prevedono i PAC (Political Action Committe) come modello di partecipazione degli elettori ma che per l’entità massima prevista per ogni contributo e la scarsa capacità di coprire i costi della campagna elettorale, si rivelano sostanzialmente uno specchietto per le allodole utile a coprire l’intervento ben più pesante ed incisivo dei gruppi di interesse legati alle diverse multinazionali.

Quanto alla favola del Paese dove chiunque può arrivare ovunque, basta ricordare come i contributi personali di candidati come Donald Trump (che spese 54milioni di Dollari personali) o di Hillary Clinton (che ci mise di suo oltre 1.500.000 di Dollari) per rendersi conto di come la corsa alla presidenza sia riservata a candidati milionari e potenti, non certo vicini - per condizione sociale e ideologie - ai cosiddetti “qualunque”.

Alla fine il precetto del giornalismo secondo il quale per scoprire la verità devi seguire i flussi del denaro, trova conferma proprio nell’articolazione di un sistema come quello statunitense, che ha nel suo fallimento morale, prima ancora che nel suo progetto economico e di governo, il suo biglietto da visita.