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Il rinvio del caso Trump al dipartimento di Giustizia per una possibile incriminazione formale dell’ex presidente americano potrebbe mettere seriamente in pericolo la candidatura alle elezioni del 2024 solo poche settimane dopo il lancio ufficiale della sua nuova campagna per la Casa Bianca. La decisione è stata presa dalla speciale commissione della Camera dei Rappresentanti di Washington, incaricata di indagare sui fatti relativi all’assalto all’edificio del Congresso da parte di sostenitori di Trump il 6 gennaio 2021 per cercare di fermare la certificazione della vittoria di Joe Biden nel voto del novembre precedente. La raccomandazione espressa all’unanimità dai membri della commissione non comporta comunque l’automatica incriminazione, la quale dipenderà totalmente dall’esito di un’altra indagine che sta conducendo un procuratore speciale nominato dal ministro della Giustizia dell’amministrazione democratica.

 

Le conclusioni della speciale commissione d’inchiesta della Camera rappresentano di per sé un evento storico. Si tratta infatti della prima volta in assoluto nella storia degli Stati Uniti che un ex presidente viene formalmente accusato, anche se da un organo legislativo, di avere commesso un crimine, oltretutto di natura eversiva. I capi d’accusa sollevati nei confronti di Trump appaiono gravissimi e includono: incitamento e appoggio all’insurrezione, ostruzione di un procedimento federale, ovvero la certificazione della vittoria di Biden da parte del Congresso, cospirazione per frodare il governo e per rendere false testimonianze.

Più ancora del deferimento non vincolante al dipartimento di Giustizia, a pesare potrebbero essere le migliaia di pagine di testimonianze ed elementi a carico di Trump raccolte dalla commissione durante l’indagine. Mentre il quadro che è emerso indica il coinvolgimento di svariate altre personalità attive nella cerchia dell’ex presidente per manipolare i risultati delle elezioni del novembre 2020, le conclusioni della stessa commissione tendono a mettere in risalto il ruolo decisivo svolto dal solo Trump.

Il tentativo di far passare la tesi della “mela marcia” dentro un sistema generalmente sano è dovuto a svariati fattori. In primo luogo, i politici che fanno parte della commissione, in larga misura appartenenti al Partito Democratico, sono ben consapevoli delle implicazioni esplosive per l’intero sistema di una possibile indagine di ampia portata, così come di eventuali incriminazioni, che faccia emergere le responsabilità nella cospirazione trumpiana di settori dell’apparato militare, delle forze di sicurezza e dell’intelligence USA.

In secondo luogo, è opinione condivisa dai leader democratici, incluso il presidente Biden, che il Partito Repubblicano, sempre più sotto l’influenza di Trump, debba essere risparmiato da un’inchiesta seria e approfondita per portare alla luce le complicità con i piani golpisti dell’ex presidente. La stabilità della politica e della stessa società americana dipende d’altra parte dalla collaborazione bipartisan dei due principali partiti americani sui temi più importanti per l’apparato di potere d’oltreoceano, sia sul fronte domestico sia su quello internazionale. Non sorprende perciò che molti aspetti oscuri degli eventi del gennaio 2021 siano stati trascurati o comunque non approfonditi a sufficienza.

Uno di questi è l’inerzia evidenziata dall’FBI e dalle altre agenzie di polizia americane nell’immediata vigilia dell’assalto a “Capitol Hill”, nonostante fossero state raccolte molte informazioni relative ai piani dei rivoltosi. L’FBI aveva inoltre numerosi informatori all’interno delle organizzazioni paramilitari di estrema destra, come i “Proud Boys” e gli “Oath Keepers”, che il 6 gennaio avrebbero guidato le operazioni dopo avere assistito a un comizio infuocato di Trump di fronte alla Casa Bianca.

Pochissimo interesse da parte della commissione della Camera è stata mostrata anche per il vuoto di oltre tre ore che seguì la richiesta disperata rivolta al Pentagono da parte di deputati e poliziotti sotto assedio al Campidoglio per fare intervenire uomini della Guardia Nazionale, teoricamente pronti a intervenire in pochi minuti. In quei momenti decisivi è probabile siano andate in scena furiose discussioni tra la Casa Bianca e i vertici militari, forse per stabilire quale appoggio tra questi ultimi avrebbero potuto trovare i piani di Trump per restare alla guida del paese.

La conseguenza immediata più pesante per Trump in caso di una incriminazione formale da parte del dipartimento di Giustizia sarebbe il divieto di candidarsi a pubblici uffici, determinando il naufragio di fatto della sua campagna per le presidenziali del 2024. A ciò ha fatto riferimento l’ex presidente nel suo comunicato seguito alla notizia del deferimento da parte della speciale commissione del Congresso. Trump intende utilizzare l’indagine e le sue conclusioni come arma a proprio vantaggio per denunciare una cospirazione volta appunto a impedirgli di riconquistare la Casa Bianca.

Ci sono d’altronde chiare indicazioni che i guai legali in cui è invischiato possano determinare un consolidamento della sua base elettorale. In questo senso vanno considerati anche i sospetti citati in precedenza sul ruolo soprattutto dell’FBI nei fatti del 6 gennaio 2021, che negli ambienti trumpiani e non solo hanno fatto emergere la tesi del complotto ai danni dell’ex presidente, precisamente per colpirlo politicamente e impedirgli di tornare a occupare posizioni di potere. Se Trump ha dimostrato ampiamente nei quattro anni alla Casa Bianca di non essere in grado o semplicemente di non avere alcuna intenzione di mettere in discussione l’influenza del “deep state”, il suo ritorno alla presidenza è visto con estremo sospetto per via della natura imprevedibile e potenzialmente destabilizzante di una sua eventuale amministrazione in un frangente storico delicatissimo per gli Stati Uniti.

Al di là del merito delle accuse nei confronti di Trump, il numero e il tempismo dei procedimenti che si stanno abbattendo su di lui sollevano più di un sospetto. Qualche settimana fa, ad esempio, la procura generale dello stato di New York aveva formulato accuse contro Trump al termine di un’indagine su una mega-frode fiscale da parte delle società dell’ex presidente. Le accuse apparivano del tutto plausibili, ma sono arrivate proprio a ridosso del lancio della sua candidatura alla Casa Bianca nonostante non fossero di certo un mistero dopo decenni di affari condotti in maniera tutt’altro che trasparente.

Sempre questa settimana, inoltre, il deferimento al dipartimento di Giustizia per i fatti di “Capitol Hill” è stato seguito di poche ore dal voto di un’altra commissione della Camera per costringere Trump a rendere pubbliche le sue dichiarazioni dei redditi. Quest’ultima è una pratica comune per i presidenti americani, ma Trump si era sempre opposto, verosimilmente per non rivelare le manovre che la stampa USA aveva in parte smascherato negli anni scorsi. Il New York Times, ad esempio, nel 2020 aveva scritto che nei due decenni precedenti Trump non aveva quasi mai versato un solo dollaro di tasse grazie a manovre fiscali che gli avevano permesso di dichiarare perdite superiori ai guadagni.

A parte i contraccolpi politici del deferimento, a livello pratico non ci saranno comunque conseguenze per Trump nel breve periodo. Come già ricordato, saranno i procuratori del dipartimento di Giustizia a decidere se l’ex presidente dovrà essere incriminato per cospirazione e tentata insurrezione e lo faranno basandosi sulle prove a loro disposizione e non tanto sulle raccomandazioni del Congresso. Lo scorso novembre, il ministro della Giustizia, Merrick Garland, aveva scelto l’ex funzionario del dipartimento, Jack Smith, per condurre un’indagine ufficiale che, oltre ai fatti del gennaio 2021, copre anche il reperimento di documenti riservati della Casa Bianca nella residenza di Trump in Florida.

Proprio sul piano politico saranno da valutare gli effetti delle vicende in cui è coinvolto l’ex presidente. I suoi sostenitori più convinti non saranno con ogni probabilità influenzati da questi eventi, ma gli equilibri in casa repubblicana sembrano non essere più così favorevoli a Trump e il crescere di una campagna mediatica sfavorevole a quest’ultimo rischia di metterlo fuori gioco e avvantaggiare altri aspiranti alla nomination, primo fra tutti il governatore ultra-conservatore della Florida e astro nascente del partito, Ron DeSantis.