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Un primo timidissimo appello pubblico, proveniente dall’interno dell’establishment americano, a cercare una soluzione negoziata del conflitto in Ucraina era sembrato arrivare questa settimana con l’invio di una lettera aperta alla Casa Bianca sottoscritta da 30 deputati del Partito Democratico. I firmatari, tutti appartenenti al gruppo dei democratici “progressisti” della Camera dei Rappresentanti (“Progressive Caucus”), chiedevano all’amministrazione Biden di impegnarsi attivamente per far cessare la guerra attraverso il dialogo con Mosca. Questo modesto tentativo è però naufragato letteralmente in poche ore, fino al clamoroso ritiro della lettera nella giornata di martedì in seguito alle polemiche esplose all’interno del Partito Democratico.

 

Il destino del documento reso pubblico lunedì la dice lunga sul clima che circola a Washington. Il punto di partenza dei 30 deputati non si discostava di nulla dal giudizio ristretto e fuorviante della situazione nell’ex repubblica sovietica che continua a caratterizzare la propaganda ufficiale di media e governi occidentali. Anche in questo modo, però, la proposta di lanciare un qualche negoziato è stata oggetto di furiosi attacchi dai vertici democratici, preoccupati sia per le crepe che stanno emergendo nella coalizione anti-russa sia per le possibili conseguenze in termini elettorali.

I deputati che avevano firmato la lettera mostravano preoccupazioni genuine per l’aggravamento del conflitto, con l’avvicinarsi di uno scontro diretto tra la NATO e la Russia, e i serissimi rischi per il peggioramento della situazione economica globale. La lettera portava in cima alla lista dei firmatari il nome della numero uno del “Progressive Caucus”, la deputata dello stato di Washington Pramila Jayapal. Altri nomi di spicco apparivano nell’elenco, tra cui quelli delle deputate di “sinistra” Alexandria Ocasio-Cortez, Ilhan Omar, Rashida Tlaib e Cori Bush. In generale, tutti i promotori del processo diplomatico erano membri della Camera provenienti da distretti elettorali che il Partito Democratico ha già messo in cassaforte in vista delle elezioni di “metà mandato” del prossimo 8 novembre.

Nel rimangiarsi quella che poteva essere la prima seria iniziativa di pace proveniente dagli Stati Uniti, la deputata Jayapal martedì ha offerto una serie di giustificazioni poco convincenti. La lettera sarebbe stata cioè redatta e firmata lo scorso mese di giugno e la pubblicazione questa settimana è avvenuta per una sorta di errore dello staff della leader del “Progressive Caucus”. Altri firmatari, che avevano anticipato l’auto-denuncia della Jayapal, hanno invece spiegato che qualsiasi critica alle politiche di Biden sull’Ucraina in questo momento rischierebbe di dare l’impressione di una scollatura tra la Casa Bianca e il Congresso.

Nella lettera destinata al presidente Biden non vi era tuttavia nulla di clamoroso. Il testo si apriva con una sorta di dichiarazione di fedeltà alla linea ufficiale. Il sostegno al regime di Zelensky era cioè totale e incondizionato, mentre le operazioni militari della Russia erano dipinte come un’azione improvvisa e totalmente ingiustificata decisa dal solo presidente Putin. L’impegno bellico di Kiev veniva poi raccontato come una battaglia di libertà e democrazia che, nonostante la ricerca di una soluzione negoziata, doveva continuare a essere sostenuta dagli Stati Uniti e dai loro alleati. Non vi era quindi nel documento nessuna riflessione sulle ragioni della guerra, a cominciare dalle provocazioni occidentali nel tentativo di allargare verso est i confini NATO e, in ultima analisi, di piegare, isolare e smembrare la Russia.

Uguale silenzio si registrava in merito alla natura del regime di Zelensky, espressione di un sistema nato da un golpe neo-nazista guidato da Washington, responsabile di un tentato genocidio contro le popolazioni filo-russe del Donbass e caratterizzato sempre più da tendenze ultra-autoritarie sul fronte domestico.

I 30 deputati democratici non si opponevano di per sé alla partecipazione indiretta del loro paese alla guerra, ma paventavano lo scivolamento verso una “escalation nucleare” in caso di prolungamento del conflitto. Se esisteva perciò “un modo per mettere fine alla guerra salvaguardando un’Ucraina libera e indipendente”, si leggeva nel documento, “è responsabilità degli Stati Uniti perseguire qualsiasi strada diplomatica per arrivare a una soluzione di questo genere che sia accettabile per il popolo ucraino”.

In modo da evitare il protrarsi del conflitto, i deputati democratici chiedevano un “vigoroso sforzo diplomatico per un cessate il fuoco e un accordo negoziato”, assieme a “colloqui diretti con Mosca”, l’esplorazione di “un nuovo assetto della sicurezza europea accettabile per tutte le parti e che garantisca un’Ucraina sovrana e indipendente”.

A motivare l’iniziativa era anche e soprattutto il sentimento crescente di opposizione alla guerra e al coinvolgimento in essa degli Stati Uniti della popolazione americana. Che gli scrupoli dei 30 membri della delegazione democratica alla Camera non erano la pace di per sé è testimoniato anche dal fatto che tutti, nessuno escluso, hanno votato ogni singola richiesta di stanziamenti di fondi e di fornitura di armi all’Ucraina inviata al Congresso dalla Casa Bianca a partire dallo scorso mese di febbraio.

Per quanto limitata e malgrado l’umiliante passo indietro, la richiesta resa pubblica lunedì da una parte dei deputati democratici indica una certa impazienza almeno di alcune sezioni della classe politica americana per il disastro verso cui l’amministrazione Biden sta portando gli USA e l’Occidente con il coinvolgimento nella guerra in Ucraina e la crociata anti-russa. È possibile anche che la Casa Bianca e la leadership democratica al Congresso temano, dopo le elezioni di inizio novembre, il possibile fondersi di questi malumori con quelli dei repubblicani riconducibili all’ex presidente Trump e costituire un blocco significativo in grado teoricamente di rallentare l’escalation in Europa orientale.

Nel partito del presidente stanno comunque emergendo divisioni sulla questione ucraina. Se Pramila Jayapal e altri hanno parlato di un errore di tempismo, la pubblicazione della lettera lunedì era apparsa tutt’altro che casuale, in coincidenza cioè con la visita a Zagabria della “speaker” della Camera, Nancy Pelosi, per partecipare a un forum che promuove il ritorno della Crimea sotto il controllo di Kiev. Mentre una parte dei deputati del suo partito a Washington chiedeva di aprire negoziati diretti con Mosca, la Pelosi cercava di rassicurare il regime di Zelensky e i suoi sponsor europei circa la compattezza dell’apparato di potere americano nel sostegno alla causa.

La risposta della Casa Bianca alla lettera dei 30 deputati democratici era stata a sua volta poco incoraggiante, né poteva essere altrimenti alla vigilia del voto, e anticipava la reazione isterica scatenata dal partito martedì. Il portavoce del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, John Kirby, aveva chiarito che doveva essere il governo ucraino “ad avere l’ultima parola sui contatti diplomatici con la Russia e con Putin”. L’amministrazione Biden non intratterrà quindi “colloqui con la leadership russa senza i rappresentanti ucraini”.

Questa spiegazione ribaltava completamente la realtà dei fatti. Zelensky e il suo regime prendono ordini direttamente da Washington e gli stessi promettenti negoziati con Mosca lo scorso mese di marzo furono letteralmente boicottati dall’amministrazione Biden tramite l’intervento dell’allora primo ministro britannico Boris Johnson. Se il governo americano soltanto lo volesse, il conflitto in corso cesserebbe all’istante. L’Ucraina non sarebbe infatti in grado di resistere a lungo senza la continua infusione di armi e denaro dall’Occidente.

Il rifiuto americano a considerare l’opzione diplomatica è d’altra parte il riflesso della natura della guerra, diventata da tempo e a tutti gli effetti uno scontro tra Russia e NATO per il raggiungimento, fino all’ultimo soldato ucraino, degli obiettivi strategici degli Stati Uniti.