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Una vera e propria fuga dal governo conservatore di Boris Johnson sembra essere cominciata a Londra, preannunciando la probabile uscita di scena in tempi brevi di un primo ministro sempre più in difficoltà sul fronte domestico. Con una mossa quasi certamente coordinata, martedì hanno abbandonato l’esecutivo due pezzi grossi come il cancelliere dello Scacchiere – o ministro delle Finanze – Rishi Sunak e quello della Sanità, Sajid Javid. La decisione ha anticipato una rapida accelerazione della crisi nella giornata di mercoledì. Decine di funzionari e ministri si sono defilati, mentre una delegazione di membri del governo si è recata a Downing Street per convincere Johnson ad abbandonare l’incarico.

 

La guerra interna al partito di governo britannico è in corso da tempo ed è stata alimentata dagli scandali che hanno coinvolto il primo ministro e dalla pessima gestione di questioni di particolare rilievo per la classe dirigente d’oltremanica, come la Brexit e i rapporti con l’Unione Europea. Il caso che ha fornito l’occasione per il più recente assalto a Boris Johnson è quello dell’ex vice “whip” (ruolo che deve in sostanza garantire la disciplina del gruppo parlamentare di maggioranza), Chris Pincher, costretto alle dimissioni in seguito a numerose accuse per molestie sessuali. Il premier ha dovuto ammettere di essere stato a conoscenza del comportamento di Pincher e dei suoi guai legali al momento della nomina, nonostante avesse sempre dichiarato pubblicamente di non saperne nulla.

Alla fine, Johnson si è scusato per non avere agito nonostante avesse avuto effettivamente a disposizione le informazioni relative a Pincher, ma, come sempre accade, la mossa obbligata non ha fatto che aggravare la sua situazione, evidenziando la tendenza quasi patologica del primo ministro a mentire pubblicamente. Il caso Pincher ha dato così il via a una nuova valanga di dimissioni. Dopo quelle già ricordate di Sunak e Javid, mercoledì gli addii al governo si sono succeduti letteralmente a valanga: dal vice-segretario del Partito Conservatore, Bim Afolami, all’ex fedelissimo di Johnson e assistente (“parliamentary private secretary”) del ministro per l’Irlanda del Nord, Jonathan Gullis, fino al ministro dell’ambiente, Jo Churchill. Altri fedelissimi come il ministro dell’Interno, Priti Patel, e quello per il “Livellamento delle Disuguaglianze”, Michael Gove, si sono invece uniti dalla delegazione governativa presentatasi mercoledì nella residenza del premier per ottenere, senza successo, le sue dimissioni. Se la Patel ha conservato il suo incarico, Gove è stato licenziato da Johnson nella serata di mercoledì.

L’occasione per annunciare il passaggio al fronte anti-Johnson è stata per molti l’intervento di mercoledì alla Camera dei Comuni del premier per rispondere alle domande dei deputati. Johnson aveva assicurato già in aula che non voleva in nessun modo farsi da parte e il giorno precedente la stessa decisione di nominare tempestivamente i sostituti di Sunak e Javid era apparsa a molti come una prova dell’intenzione di rimanere al suo posto. Alla carica di cancelliere è stato spostato il ministro dell’Educazione, Nadhim Zahawi, mentre alla Sanità è finito Steve Barclay, ex capo di gabinetto di Downing Street.

Nelle lettere di dimissioni presentate in questi giorni, i membri del governo hanno quasi sempre citato come motivo del loro gesto la mancanza di “integrità” del primo ministro oppure la scarsa “leadership” mostrata, sollevando in sostanza questioni di efficienza o di natura morale. Ci sono tutti gli indizi piuttosto per pensare a una battaglia interna ai “Tories” che si sta combattendo anche e soprattutto sui contenuti delle politiche governative in un frangente segnato da una crisi in rapido avanzamento.

Più di una prova in questo senso si trova ad esempio nel comunicato del ministro più importante che ha fin qui rassegnato le proprie dimensioni, il cancelliere dello Scacchiere Rishi Sunak. Nella sua lettera, apparsa su Twitter pochi minuti dopo quella di Sajid Javid, il ministro delle Finanze uscente ha parlato di divergenze crescenti con Johnson circa l’approccio da tenere in merito alle politiche economiche. Sunak ha fatto ricorso a una perifrasi per spiegare che la popolazione britannica deve essere informata al più presto della dura realtà che si prospetta, mentre non devono essere offerte illusioni su un “futuro migliore” che molto difficilmente potrà concretizzarsi.

Dietro alla retorica dei leader conservatori c’è in sostanza un conflitto di potere che si sta giocando sull’implementazione di misure di austerity ancora più dure rispetto agli ultimi anni per difendere la posizione internazionale del capitalismo britannico post-Brexit. Uno scontro reso ancora più aspro dal ginepraio della crisi russo-ucraina, con Johnson che ha sposato in pieno l’offensiva contro Mosca degli Stati Uniti, facendone pagare le conseguenze alla popolazione britannica. Il malcontento causato dall’impennata dei livelli di inflazione e il dilagare di scioperi in molti settori dell’economia rendono insomma urgente un cambio di rotta a Londra per evitare che le tensioni sociali sfuggano al controllo dell’esecutivo.

Non è un caso che Sunak e Javid vengano considerati tra i possibili candidati alla leadership del Partito Conservatore e, di conseguenza, alla carica di primo ministro se Johnson dovesse lasciare o venisse sfiduciato. Come ha significativamente spiegato un’analisi pubblicata mercoledì dal sito Politico.eu, i due ministri dimissionari sono entrambi sostenitori del “rigore fiscale” e, a differenza di Johnson, “poco a loro agio” quando si tratta di aumentare la spesa da destinare ai servizi pubblici.

C’è comunque una forte sensazione che quest’ultima crisi possa assestare il colpo di grazia al governo Johnson, installatosi trionfalmente sull’onda della Brexit nemmeno tre anni fa. Fattori numerici e legati alle regole interne del Partito Conservatore rendono incerta la data della possibile spallata definitiva al premier in carica. I contraccolpi del cosiddetto “partygate”, cioè l’organizzazione di feste clandestine a Downing Street durante il lockdown del 2020, le recenti sconfitte subite dai conservatori in due elezioni speciali per altrettanti seggi della Camera dei Comuni e l’assenza di una soluzione alla crisi scoppiata attorno al “Protocollo nordirlandese”, risultato dell’accordo post-Brexit con l’UE, hanno indebolito in modo decisivo la posizione di Johnson, il cui futuro appare ormai segnato.

Se l’emorragia nelle file del governo dovesse proseguire nei prossimi giorni o addirittura nelle prossime ore, è inevitabile che Johnson finirà per prendere atto dell’impossibilità di proseguire. Un’altra opzione è rappresentata dalla sfiducia del proprio partito. Lo scorso mese di giugno si era già tenuto un voto su una mozione contro Johnson tra i membri conservatori del parlamento, con quest’ultimo che era sopravvissuto grazie a un margine decisamente ridotto. Le regole dei conservatori prevedono che dopo un voto di sfiducia vinto dal leader del partito debba trascorrere almeno un anno prima di poterne indire un altro.

I malumori sono però talmente diffusi da avere spinto svariati membri del Partito Conservatore a chiedere una modifica rapida delle norme interne per lanciare il prima possibile una nuova mozione di sfiducia contro Johnson. Settimana prossima si terranno le elezioni per la scelta dei nuovi membri della “Commissione 1922”, incaricata di stabilire le regole interne al Partito Conservatore, ed è probabile che verranno selezionati molti oppositori del primo ministro. Per il momento saranno le pressioni l’arma per convincere Johnson a lasciare.

L’ex sindaco di Londra ha motivato la sua fermezza nel respingere le richieste di dimissioni con il rischio di elezioni anticipate in caso di avvicendamento al vertice del Partito Conservatore. La tesi non ha particolare fondamento, visto che i conservatori detengono un’ampia maggioranza in parlamento e, in ogni caso, anche nella storia recente della Gran Bretagna cambi di leadership nel partito al potere non hanno impedito il completamento della legislatura.

Johnson sostiene inoltre che un voto anticipato porterebbe sicuramente i laburisti al governo, magari in coabitazione con i nazionalisti scozzesi, rilanciando la minaccia di un nuovo referendum per l’indipendenza. Quest’ultimo argomento risulterà poco convincente per la maggior parte dei colleghi di partito di Johnson. Una delle principali ragioni della rivolta in atto è infatti da collegare proprio ai timori che la permanenza di Boris Johnson alla guida del governo e del partito finisca per screditare talmente i “Tories” da determinare una pesante sconfitta alle prossime elezioni, siano esse anticipate o alla scadenza naturale del mandato nel 2024.