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Il successo nelle presidenziali in Francia produce quasi sempre un effetto positivo per il partito del candidato vincente che, infatti, quando le elezioni  parlamentari si tengono di lì a poche settimane, si assicura solitamente la maggioranza assoluta per governare in autonomia. Ciò non è invece accaduto domenica per la coalizione “Insieme” (“Ensemble”) del presidente Macron, la cui popolarità è crollata sotto il peso di una situazione economica e sociale in rapido deterioramento, spingendo per contro verso risultati inaspettati o comunque ampiamente soddisfacenti sia l’alleanza di centro-sinistra NUPES, guidata da Jean-Luc Mélenchon, sia l’estrema destra di Marine Le Pen.

L’ultima volta che un presidente appena eletto ha mancato la maggioranza assoluta nel voto per l’Assemblea Nazionale immediatamente successivo è stata nel 1988. Per Macron, già le presidenziali di aprile erano state tutto fuorché trionfali. Nonostante la rielezione, più che l’entusiasmo suscitato dal presidente in carica era prevalsa la scelta del male minore e il rifiuto di votare per una candidata legata al neo-fascismo.

 

Dopo un paio di mesi la situazione è ulteriormente peggiorata. Il fatto di essere associati al presidente dei ricchi e al suo pseudo-partito ha causato la sconfitta di molti candidati anche autorevoli o con incarichi di governo. Secondo molti istituti di ricerca, tra cui Ipsos, il numero di seggi inaspettatamente alto ottenuto dall’ex Fronte Nazionale – ora “Rassemblement National” (RN) – e la perdita della maggioranza assoluta da parte del “movimento” di Macron sono dovuti in parte al voto a favore del partito della Le Pen degli elettori di Mélenchon nei collegi uninominali dove il ballottaggio metteva di fronte candidati del RN a quelli di “Ensemble”.

In tutti i casi, il dato politico del voto di domenica è l’incertezza dominante in un’Assemblea Nazionale senza un percorso immediato verso una maggioranza di governo. Si tratta peraltro di uno scenario ormai consueto per le “democrazie” occidentali e per nulla sorprendente vista la competizione delle rispettive classi politiche nel disattendere le promesse elettorali e nel penalizzare gli interessi dei lavoratori e delle classi medie dei loro stessi paesi. L’altro dato che conferma questa realtà è anch’esso tutt’altro che nuovo, quello cioè di un astensionismo molto accentuato. I voti validi nel secondo turno delle legislative di domenica sono stati pari ad appena il 46% degli aventi diritto.

Con 246 seggi, “Ensemble” e il presidente Macron sono molto lontani dalla maggioranza assoluta di 289. A prima vista, l’elettorato francese sembra spaccato in tre blocchi, con gli altri due rappresentati appunto da NUPES (“Nuova Unione Popolare Sociale ed Ecologica”) e dall’ex Fronte Nazionale, aggiudicatisi rispettivamente 142 e 89 seggi. In realtà, la parziale disconnessione delle parlamentari dalle recenti presidenziali, la scarsa partecipazione al voto e la dispersione dei consensi indicano una crescente frustrazione nei confronti dell’intero sistema, non solo da molto tempo non più in grado di offrire una scelta credibile per gli elettori, ma che tende addirittura al peggioramento.

È evidente che gli eventi delle ultime settimane hanno accelerato il processo di disintegrazione della base di consenso, già di per sé traballante, che aveva consentito a Macron di essere riconfermato all’Eliseo, sia pure con tutte le riserve descritte in precedenza. Davanti all’impennata dell’inflazione, alle conseguenze prodotte dalle sanzioni UE – teoricamente destinate a colpire la Russia – e al persistere della minaccia a ciò che resta del welfare in Francia, un’altra fetta dell’elettorato ha voltato le spalle al presidente-banchiere, optando per una delle poche alternative a disposizione: il voto per Mélenchon, per la Le Pen o l’astensionismo.

Il fatto che “Ensemble” resti la formazione politica col maggior numero di seggi all’Assemblea Nazionale nulla toglie alla débacle di Macron. Un’idea più precisa del fallimento del presidente e della sua coalizione la danno i risultati di alcune singole competizioni di secondo turno che hanno visto uscire sconfitti candidati di primissimo piano. Primi fra tutti il presidente dell’Assemblea Nazionale e già segretario del partito di Macron (LREM), Richard Ferrand, e l’ex ministro dell’Interno, Christophe Castaner. I due sono stati battuti rispettivamente in Bretagna e in Provenza da candidati di NUPES. Tra gli altri sconfitti autorevoli ci sono alcuni ministri nominati subito dopo le presidenziali di aprile, come quella della Salute, Brigitte Bourguignon, e dell’Ecologia, Amélie de Montchalin. È riuscita invece a evitare a malapena la sconfitta il neo-primo ministro, Élisabeth Borne, impostasi per un paio di punti percentuali su un giovanissimo e semi-sconosciuto candidato di NUPES.

Il voto è stato in larga misura una bocciatura dell’agenda anti-sociale di Macron, già bersaglio di scioperi e proteste in queste settimane, basata su iniziative come l’aumento dell’età pensionabile, i tagli al welfare e l’incremento delle tasse universitarie. Ciononostante, subito dopo la chiusura delle urne e la diffusione dei primi risultati, esponenti del governo hanno promesso di proseguire sulla strada della “riforme”. L’ex ministro della Salute, Olivier Véran, ha detto ad esempio alla rete TF1 che la coalizione del presidente troverà i voti necessari in parlamento per implementare al più presto le misure allo studio.

La scelta più logica è quella di guardare ai gollisti di “Les Républicains” (LR), i quali, pur avendo confermato lo stato di profonda crisi già evidenziata nelle presidenziali, hanno conquistato 64 seggi che potrebbero tornare utili al programma di “riforme” di Macron. Il leader uscente di LR, Christian Jacob, ha prevedibilmente escluso qualsiasi appoggio al governo e ribadito l’impegno di restare all’opposizione. In realtà, il nuovo esecutivo cercherà di pescare proprio tra i gollisti, così come tra i “moderati” della coalizione di Mélenchon, a cominciare dai neo-eletti del Partito Socialista (PS) o dei Verdi.

Questi ultimi due partiti, anche se presentatisi nella coalizione NUPES, avranno seggi sufficienti per formare gruppi parlamentari autonomi e l’unità con le formazioni più di sinistra – “La France Insoumise” (LFI) di Mélenchon e il Partito Comunista (PCF) – sarà perciò tutta da verificare. Per quanto riguarda Mélenchon, non si è realizzato l’obiettivo di ottenere la maggioranza per costringere Macron a nominarlo primo ministro, alla luce anche dell’ottimo risultato delle presidenziali e del margine di vantaggio, sia pure minimo, ottenuto al primo turno sulla coalizione “Ensemble”.

L’esperimento di NUPES è comunque in larga misura riuscito. Dopo il tracollo dei socialisti al termine della disastrosa presidenza Hollande, la sinistra è tornata a rappresentare un fattore politico di rilievo in Francia, grazie soprattutto a una campagna incentrata sul contrasto a tutto campo alle “riforme” anti-sociali di Macron. Va anche ricordato, per contro, che Mélenchon ha ostentato posizioni non molto diverse da quelle del presidente francese sul fronte della crisi ucraina, arrivando a elogiare la recente visita di Macron a Kiev.

Discorso diverso va fatto a questo proposito per la Le Pen e l’ex Fronte Nazionale. Il RN ha sbancato le elezioni legislative francesi mettendo le mani su un numero di seggi che nessuno aveva pronosticato alla vigilia. Questo partito continua ad avere fortune alterne, senza dubbio per lo scarso appeal che complessivamente il fascismo o post-fascismo esercita in Francia come altrove. Tuttavia, il RN resta un punto di riferimento per il voto di protesta anti-sistema, grazie anche alla trasformazione populista subita in questi anni, con la conseguente adozione di proposte sociali tipicamente di sinistra, e alla promozione di un “sovranismo” che trova terreno fertile in un elettorato sempre più ostile a organi sovranazionali sinonimo di inettitudine e autoritarismo.

Il partito della Le Pen, grazie al risultato ottenuto, avrà nella legislatura entrante uno status diverso rispetto al passato. La maggiore influenza sulla composizione e i lavori delle commissioni parlamentari, assieme agli aumentati spazi per gli interventi dei suoi deputati in aula e maggiori finanziamenti pubblici, daranno ancora più visibilità al RN. Se, in ogni caso, molti schemi ideologici tradizionali sembrano essere andati in frantumi e la Le Pen è stata in pratica l’unica leader politica francese ad avere tenuto una linea relativamente ragionevole sulla questione russo-ucraina, la crescita del suo partito continua a rappresentare una chiara minaccia.

Come tutte le formazioni di estrema destra o apertamente neo-fasciste in Occidente, anche il RN, dietro a una facciata populista e all’appello alle fasce più disagiate della popolazione, trova appoggi tra i poteri forti e nelle strutture statali, in particolare negli ambienti militari e delle forze di sicurezza. Nel caso la crisi dovesse precipitare, è prevedibile che l’estrema destra venga chiamata a svolgere un ruolo politico cruciale per stabilizzare il sistema e schiacciare le resistenze sociali. Al di là dello stigma del neo-fascismo, inoltre, i partiti tradizionali francesi hanno da tempo adottato molte proposte dell’estrema destra. Macron, anzi, nel primo mandato si è spinto talvolta anche oltre, come ad esempio con l’adozione della legge che ha preso di mira la comunità musulmana transalpina.

Con i conflitti politici e sociali pronti a esplodere in un clima economico in forte peggioramento, il quinquennio che sta per iniziare in Francia si annuncia dunque caldissimo. Tra il rilancio delle istanze della sinistra, non necessariamente riflesse dai partiti entrati all’Assemblea Nazionale, l’avanzata dell’ex Fronte Nazionale, la maggioranza assoluta fatta registrare dagli astenuti e un presidente potenzialmente già azzoppato all’alba del suo secondo mandato, il cambiamento resterà impossibile da raggiungere dentro i confini del parlamento, se non in direzione ultra-liberista e con un qualche accordo “al centro”.

Oppure, ancora peggio e come qualcuno ha già ipotizzato, attraverso il ricorso allo strumento dell’articolo 49.3 della Costituzione che consente al governo di bypassare, entro certi limiti, il voto del parlamento e di approvare “per decreto” le proposte di legge più controverse o, per meglio dire, quelle che incontrano le maggiori resistenze tra la popolazione francese.