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Il partito nazionalista cattolico Sinn Féin ha ottenuto per la prima volta il maggior numero di consensi nelle elezioni, tenute settimana scorsa, per il rinnovo dell’assemblea legislativa che rappresenta le sei contee del Regno Unito nell’isola d’Irlanda. Il successo garantirà al Sinn Féin la carica di primo ministro dell’Irlanda del Nord, ma la formazione del nuovo governo, che dovrà essere condiviso con il principale partito “unionista” protestante, appare tutt’altro che semplice. Se la questione del referendum sull’unificazione con la Repubblica d’Irlanda potrebbe essere rilanciata, approfondendo così le divisioni tra le due comunità del nord, sarà in realtà la vicenda del “protocollo” nordirlandese, prodotto tossico della “Brexit”, ad agitare le acque della politica a Belfast, con possibili riflessi anche sulla stabilità del governo conservatore di Londra.

 

È dunque la prima volta che il Sinn Féin è in grado di imporsi come principale partito nel quadro di un meccanismo politico, come quello uscito dagli accordi del Venerdì Santo del 1998, creato apposta per garantire il predominio delle posizioni unioniste. Dallo scorso mese di febbraio, l’Irlanda del Nord non ha un governo funzionante in seguito alle dimissioni del primo ministro del Partito Unionista Democratico (DUP), Paul Givan, presentate in segno di protesta contro l’implementazione del “protocollo” nordirlandese negoziato tra l’Unione Europea e il governo britannico.

Il “protocollo” è il frutto di una complicatissima trattativa seguita alla “Brexit” e prevede il mantenimento della libera circolazione delle merci tra la Repubblica d’Irlanda e l’Irlanda del Nord, nonostante la frontiera che spacca l’isola sia diventata di fatto il confine dell’UE. Questa soluzione si era resa necessaria per salvaguardare i già ricordati accordi del 1998 che avevano messo fine alla guerra civile in Irlanda del Nord. Allo stesso tempo, il provvedimento era subito diventato oggetto di un’accesissima polemica sia per ragioni pratiche sia di natura politica.

Nel primo caso perché il “protocollo” ha fissato un confine doganale artificiale nel mare d’Irlanda, con la conseguente imposizione di controlli sulle merci provenienti dalla Gran Bretagna. Sul piano politico, invece, l’accordo tra Londra e Bruxelles è visto con orrore tra gli unionisti perché crea una realtà di fatto che assomiglia molto a un’unione tra Repubblica d’Irlanda e Irlanda del Nord. Essendo tale questione in cima all’agenda dei partiti unionisti della “linea dura”, essa rischia di rappresentare un ostacolo molto difficile da superare per giungere a un governo a guida Sinn Féin. Il leader del DUP, Jeffrey Donaldson, aveva infatti chiesto la cancellazione dell’odiato “protocollo” come condizione per tornare a partecipare all’attività del parlamento e al governo di Belfast.

Per quanto riguarda l’esito del voto del 5 maggio scorso, il Sinn Féin ha ottenuto il 29% dei consensi, mentre il DUP si è fermato al 21%, con un arretramento di circa 8 punti percentuali rispetto alle precedenti consultazioni. Grazie ai 27 seggi conquistati, contro i 25 del DUP, un esponente del Sinn Féin potrà ricoprire la carica di primo ministro, con ogni probabilità la leader del partito in Irlanda del Nord, Michelle O’Neill. Secondo gli Accordi del Venerdì Santo, il governo di Belfast deve essere condiviso tra il primo partito cattolico e il primo partito protestante. Quello con più seggi ha diritto a esprimere il primo ministro e l’altro il suo vice. Entrambi i partiti hanno tuttavia lo stesso peso, visto che il governo non può funzionare se uno dei due decide di ritirarsi da questa sorta di coalizione forzata.

Il successo elettorale del Sinn Féin è in ogni caso il risultato di una serie di fattori e non solo delle tensioni provocate dalla “Brexit” nel fronte unionista. Uno dei più importanti è senza dubbio il focus dell’ex braccio politico dell’IRA sulle questioni sociali, con una strategia che gli ha già permesso di aumentare sensibilmente i consensi anche nella Repubblica d’Irlanda, dove, secondo i più recenti sondaggi, sarebbe oggi il primo partito del parlamento di Dublino.

La risoluzione della crisi nordirlandese oltre due decenni fa ha in ogni caso fissato anche una serie di paletti che limiteranno non poco l’implementazione del programma del Sinn Féin, a causa appunto della necessaria collaborazione con il proprio principale rivale protestante. Questa realtà ha fatto in modo che il Sinn Féin, al potere in coabitazione a Belfast fin dal 2007, abbia partecipato attivamente negli ultimi anni all’imposizione delle politiche di austerity richieste dal governo di Londra.

In merito all’unificazione con la Repubblica d’Irlanda, è la stessa leadership del Sinn Féin a rendersi conto dell’impossibilità di arrivare anche solo a un referendum vincolante nel breve o medio periodo. Michelle O’Neill ha da parte sua invocato un “dibattito onesto” sulla questione, lasciando intendere che la strategia del partito è di seguire un percorso graduale che cerchi di favorire in futuro un clima propizio al cambiamento degli equilibri attuali.

Al di là del riferimento nominale al referendum sull’unificazione, la preoccupazione principale rimarrà la soluzione all’impasse del “protocollo nordirlandese”. È ironicamente la “Brexit”, per la quale si era schierata fermamente la maggioranza dei partiti unionisti, ad avere gettato lo scompiglio nella comunità protestante. Il DUP era diventato a un certo punto numericamente decisivo per la sopravvivenza del governo di Londra, quello guidato da Theresa May, sul quale aveva perciò esercitato la massima pressione per arrivare a una “Brexit” nei termini più radicali possibili.

Dopo la caduta del governo May e la vittoria schiacciante dei conservatori sotto la guida di Boris Johnson nel 2019, il DUP aveva perso improvvisamente la propria influenza a Londra, così come erano svanite le promesse estorte al precedente esecutivo. I nuovi scenari avevano permesso la stipula, sia pure tra mille difficoltà, dell’accordo sul “protocollo” nordirlandese con le già ricordate scosse prodotte nel panorama politico di Belfast. La prima vittima è stata proprio il DUP. L’emorragia di consensi per quest’ultimo è diventata inevitabile, dal momento che la condotta del partito e le nuove circostanze hanno scontentato sia i sostenitori moderati della “Brexit” sia quelli più convinti. Nel voto di giovedì scorso, i primi sembrano avere optato in buona parte per il Partito dell’Alleanza “non settario”, diventato la terza forza politica in Irlanda del Nord, mentre una fetta dei fautori della linea dura ha contribuito, tra l’altro, ai progressi del partito Voce Unionista Tradizionale (TUV), salito a poco meno dell’8%.

Il futuro politico e la stabilità dell’Irlanda del Nord dipenderanno in larga misura dalle decisioni che saranno prese a Londra in merito al “protocollo”, che lo stesso primo ministro Johnson ha promesso di liquidare ma tuttora oggetto di delicate negoziazioni con Bruxelles. Il tradizionale “discorso della regina” in programma martedì, che delineerà il programma di governo per il prossimo anno, potrebbe dare qualche indicazione sulle intenzioni di Downing Street.

Da considerare ai fini delle prossime mosse di Londra e, di conseguenza delle prospettive del potenziale nuovo governo nordirlandese guidato dal Sinn Féin, c’è anche la situazione legata al conflitto in Ucraina. Se, da un lato, gli affanni sul fronte interno di Johnson, i malumori degli ambienti “pro-Brexit” e l’inquietudine del fronte unionista a Belfast richiederebbero un’azione di rottura e la liquidazione del “protocollo” per l’Irlanda del Nord, dall’altro una decisione in questo senso alimenterebbe ancora di più le tensioni con Bruxelles.

Il riesplodere dello scontro politico con l’Unione Europea porterebbe a una spaccatura tutt’altro che opportuna tra i sostenitori del regime di Kiev nel momento in cui l’offensiva anti-russa sta raggiungendo livelli senza precedenti. È dunque probabile che il governo Johnson, nonostante la retorica, continui a preferire una soluzione negoziata con Bruxelles alla crisi nordirlandese o, quanto meno, che cerchi di muoversi per guadagnare dell’altro tempo.

I riflessi sulla situazione politica a Belfast saranno di conseguenza tutti da verificare, ma le prospettive per la formazione di un nuovo governo non appaiono comunque confortanti, proprio mentre il business nordirlandese chiede invece stabilità e certezze. Secondo gli Accordi del Venerdì Santo, se entro sei mesi non verrà formato un nuovo esecutivo, dovranno essere indette nuove elezioni oppure la palla passerà a Londra, da dove si potrebbe decidere la sospensione di fatto dell’auto-governo nordirlandese o di promuovere un qualche tipo di accordo alternativo tra la classe politica dell’Irlanda del Nord.