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L’opposizione ungherese, l’Unione Europea e gli Stati Uniti sono rimasti ancora una volta spiazzati dalla prestazione elettorale del primo ministro Viktor Orban e del suo partito Fidesz, in grado nel voto del fine settimana di conquistare molto nettamente un quarto mandato consecutivo alla guida del paese dell’ex blocco sovietico. I governi occidentali e i media ufficiali avevano previsto un’elezione equilibrata e addirittura qualche possibilità di successo per un’opposizione finalmente unita, favorita anche, a loro dire, dalla scelta impopolare di Orban di mantenere una posizione tutto sommato neutrale nel conflitto russo-ucraino. Queste previsioni sono invece miseramente fallite, anche se, per indovinare l’esito del voto, sarebbe stato sufficiente considerare, al di là di ogni considerazione ideologica o di merito, la proposta politica del premier ungherese, capace senza alcun dubbio di convincere gli elettori che soltanto Fidesz è in grado di difendere gli interessi del proprio paese.

 

Il partito di Orban ha oltretutto nuovamente ottenuto una maggioranza dei due terzi in parlamento, con la conseguente possibilità di continuare cambiare a piacere la Costituzione. In termini percentuali, Fidesz ha sfiorato il 54%, incrementando di 4 punti e 2 seggi il risultato del 2018. Questi numeri smontano in primo luogo la leggenda della forza di Orban collegata alle divisioni che avevano caratterizzato le forze di opposizione nelle tornate elettorali precedenti. In questo caso, ben sei partiti si erano coalizzati – dai socialdemocratici alla destra xenofoba riciclatasi “moderata” di Jobbik – con tanto di primarie e con la candidatura dell’indipendente, nonché ex elettore dichiarato di Fidesz, Peter Marky-Zay. L’alleanza di opposizione si è fermata poco sotto il 35% e ha finito per perdere anche in alcuni collegi dove era data in vantaggio.

Per comprendere la realtà parallela in cui si muove la stampa “mainstream” in Occidente, è utile citare una considerazione riportata in un’analisi del voto in Ungheria apparsa sul sito dell’emittente pubblica tedesca Deutsche Welle (DW). L’autore del pezzo lascia intendere che l’opposizione ungherese non nutriva particolari aspettative prima del voto, in particolare a causa del controllo esercitato sui media pubblici da Fidesz e della manipolazione delle circoscrizioni elettorali per favorire il governo. Tuttavia, secondo il redattore di DW, “l’invasione russa dell’Ucraina sembrava aver dato un appiglio” al fronte anti-Orban.

Le stesse speranze dovevano appunto averle anche i leader dell’opposizione, visto che il loro candidato alla carica di primo ministro in campagna elettorale aveva spesso ricordato agli elettori “gli stretti legami politici ed economici tra Orban e Putin”. Ancora, Marky-Zay e i partiti che lo hanno sostenuto si erano spesi per chiedere che l’Ungheria “agisse di concerto con i partner UE sulle sanzioni [contro la Russia] e sulla fornitura di armi [all’Ucraina]”.

Pensare anche solo lontanamente che una strategia basata sull’allineamento alle politiche guerrafondaie e letteralmente suicide dell’Europea possa risultare vincente in un’elezione è a dir poco ridicolo. Ciò che Orban ha dovuto fare per garantirsi un quarto mandato è stato infatti escludere iniziative controproducenti, ovvero quelle che praticamente tutti i paesi europei stanno adottando, mettendo a rischio le importazioni di gas, petrolio e beni alimentari dalla Russia. Stesso discorso vale per l’ambito militare. Da Budapest non c’è nessuna intenzione di farsi trascinare nel conflitto e, per questa ragione, non saranno consegnate armi al regime ucraino né verrà autorizzato il transito sul territorio ungherese di equipaggiamenti militari diretti a Kiev.

Se non c’è alcun bisogno di celebrare le posizioni oggettivamente conservatrici e per molti versi autoritarie di Orban, è innegabile che il premier ungherese sia in grado di fare ciò che le élites ultra-screditate in Occidente nemmeno si sognano, vale a dire prospettare un modello di governance all’insegna dell’indipendenza, della difesa della sovranità e degli interessi economico-strategici del proprio paese. A ciò va poi aggiunto che le politiche economiche di Orban sono improntate per lo più al rafforzamento del welfare, al contrario di quelle profondamente impopolari di un’opposizione che propende, come i loro padroni europei, per un liberismo più o meno selvaggio.

La resistenza ai diktat di Bruxelles o Washington funziona insomma alla perfezione, precisamente perché i modelli di UE e USA hanno perso del tutto il loro appeal. Le stesse recriminazioni di politici e commentatori occidentali sulle tendenze all’autoritarismo di Orban sono ormai vuote, non perché senza fondamento ma per il fatto che la deriva anti-democratica dei paesi europei di questi anni è a ben vedere forse ancora più marcata di quella registrata a Budapest sotto i governi di Fidesz.

Nei commenti in Occidente circa la vittoria di Orban si osserva in ogni caso una certa insistenza sull’isolamento dell’Ungheria e sulle scelte “impopolari” che il primo ministro dovrà operare nei prossimi mesi. In questi punti di vista c’è con ogni probabilità tutta la frustrazione per un politico e un partito che continuano a riscuotere consensi in patria malgrado la demonizzazione costante e la denuncia per la mancata adesione ai (presunti) valori liberal-democratici.

Oltre a ciò, in ballo ci sono anche questioni più concrete che non hanno nulla a che fare con la retorica della “democrazia”. In primo luogo, è proprio la vicinanza di Orban a Putin a fare del leader ungherese il bersaglio preferito di Bruxelles e Washington, tanto più in questo frangente storico. Lo strappo di Budapest sulla questione ucraina rischia di rompere l’apparente unità europea, in particolar modo per quanto riguarda il fronte orientale, dove i governi dei paesi dell’ex blocco sovietico stanno facendo a gara nel mostrare l’attitudine più feroce possibile nei confronti della Russia.

L’Ungheria di Orban, in particolare, fa parte del cosiddetto “gruppo di Visegrad” con Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia, accomunato in genere da orientamenti politici ultra-conservatori e populisti. Le preoccupazioni per l’Europa e gli Stati Uniti appaiono evidenti, anche perché la stessa Slovacchia ha dato segni di cedimento sulla questione del pagamento del gas russo in rubli. Qualche giorno fa il governo di Bratislava aveva affermato di voler valutare la richiesta del Cremlino, ma poco più tardi, chiaramente in seguito a un intervento “esterno”, il primo ministro Eduard Heger ha fatto marcia indietro assicurando che il suo paese rimarrà allineato alle posizioni europee.

Un anticipo delle pressioni che il nuovo governo Orban dovrà subire a breve è arrivato martedì da Bruxelles con un tempismo impeccabile. L’Unione Europea ha fatto sapere di avere aperto un’altra procedura disciplinare nei confronti dell’Ungheria. Le motivazioni sono quanto meno ridicole e avrebbero a che fare con presunte violazioni dello stato di diritto. Budapest rischia così di vedersi tagliare i fondi provenienti dall’Europa. Il ministro della Giustizia ungherese, Judit Varga, ha riassunto correttamente il senso del provvedimento della Commissione europea, che avrebbe deciso di punire il popolo ungherese “perché il 3 aprile la maggioranza non ha votato secondo i desiderata di Bruxelles”.

Il quarto sonoro successo consecutivo di Orban e Fidesz in Ungheria conferma insomma come gli elettori, messi di fronte ad una scelta tra est e ovest, tra l’obbedienza agli ordini di Washington o dei burocrati di Bruxelles e la difesa degli interessi nazionali, tra la guerra e la pace, tra stato sociale e privatizzazioni, non sembrano avere troppe esitazioni nell’esprimere le loro preferenze.

Il vero problema su cui riflettere per le nullità che siedono nelle stanze del potere o che dirigono i giornali ufficiali in Occidente non è perciò la ragione per cui un “dittatore” come Orban continui a uscire rafforzato dalla prova delle urne, ma piuttosto perché nel resto dell’Europa non esista un’alternativa reale al servilismo verso Washington e al modello ultra-liberista o, quando esiste, è ormai prerogativa quasi assoluta della destra più o meno estrema.