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Mentre l’attenzione di tutto il mondo continua a essere concentrata sulle vicende ucraine, nel parlamento e nei più alti tribunali del Pakistan si è aperto ufficialmente un nuovo fronte delle cosiddette “guerre ibride”, promosse più o meno clandestinamente dagli Stati Uniti per rovesciare governi o regimi entrati in rotta di collisione con Washington. Nel mirino c’è il primo ministro pakistano, Imran Khan, il quale, con una manovra controversa, è riuscito nel fine settimana a evitare un voto di sfiducia all’Assemblea Nazionale e a ottenere dal presidente, Arif Alvi, lo scioglimento dello stesso organo legislativo pakistano. Sulla legittimità costituzionale dell’iniziativa di Khan si dovrà esprimere a breve la Corte Suprema del paese asiatico, ma, quali che siano i prossimi sviluppi, il governo democraticamente eletto del Pakistan ha dato un altro clamoroso esempio delle declinanti capacità americane nell’imporre i propri interessi a paesi sovrani.

 

La mozione contro il governo Khan era stata fissata per domenica 3 aprile dopo settimane di feroce contesa politica. L’offensiva contro il premier era stata lanciata, oltre che dal movimento fondamentalista Jamiat Ulema-e-Islam Fazl (JUI-F), dai due tradizionali partiti di potere pakistani, la Lega Musulmana del Pakistan-N (PML-N), dell’ex capo del governo Nawaz Sharif e del fratello Shahbaz, e il Partito Popolare del Pakistan (PPP), riconducibile alla famiglia Bhutto-Zardari. Il motivo dell’attacco al governo era innanzitutto la pessima gestione dell’economia pakistana negli ultimi mesi. I partiti di opposizione erano riusciti poi a convincere un numero crescente di deputati della maggioranza a votare la sfiducia a Khan, attraverso promesse di incarichi politici e con ogni probabilità denaro. Khan, da parte sua, aveva cercato di negoziare con gli alleati un rilancio del suo gabinetto, arrivando a offrire a questi ultimi anche importanti cariche a livello locale.

Nelle trattative politiche andate in scena prima di domenica sono intervenuti senza dubbio attori esterni, a cominciare dai diplomatici americani, nonché forse i potenti vertici delle forze armate pakistane, anche se il loro ruolo non risulta chiarissimo. Alla fine, anche una ventina di deputati del partito Tehreek-e-Insaf (PTI) di Khan sembravano essere stati convinti a defezionare, così che praticamente tutti i media locali e internazionali davano la sorte del primo ministro ormai segnata. Khan, tuttavia, aveva subito contrattaccato, sia mobilitando i propri sostenitori sia cercando di rinviare il voto di sfiducia in Parlamento.

Soprattutto, il primo ministro pakistano aveva deciso di denunciare pubblicamente le pressioni internazionali a cui il suo governo è stato sottoposto. Dal suo arrivo al potere nel 2018, Khan aveva accelerato il processo di revisione degli orientamenti strategici del Pakistan, posizionando sempre più il paese all’interno delle dinamiche del multilateralismo e dell’integrazione euroasiatica che fanno capo a Russia e Cina. Così facendo, l’ex campione di cricket si era guadagnato l’ostilità di Washington, tanto che il presidente Biden non ha finora avuto nemmeno un colloquio diretto col premier pakistano, e i malumori dei vertici militari, tradizionalmente legati agli USA e il cui appoggio era stato giudicato da molti come decisivo per il trionfo elettorale del PTI quattro anni fa.

Ad ogni modo, in un clima politico infuocato, la giornata di domenica all’Assemblea Nazionale di Islamabad ha fatto registrare eventi decisamente straordinari. Quando tutto sembrava pronto per un voto in aula che appariva inevitabilmente contrario al governo, il vice-presidente dell’assemblea legislativa pakistana, Qasim Suri, ha modificato l’agenda dei lavori, cancellando la mozione di sfiducia perché contraria all’articolo 5 della Costituzione che stabilisce come la “fedeltà allo stato” debba essere alla base del comportamento di tutti i cittadini. Il riferimento è appunto alla trama contro Imran Khan che si sarebbe tessuta tra potenze straniere e oppositori del primo ministro.

Le accuse del governo erano state esposte in aula, prima della decisione del vice “speaker” Suri, dal ministro dell’Informazione, Fawad Chaudhry, il quale ha spiegato come il 7 marzo scorso un ambasciatore pakistano in un paese occidentale fosse stato convocato da rappresentanti di questo stesso paese per esprimere il loro disappunto nei confronti del governo Khan e per avvertire che i rapporti bilaterali dipendevano dal successo di un imminente voto di sfiducia. La mozione sarebbe stata presentata ufficialmente a Islamabad il giorno successivo.

Sempre domenica, invece, dopo l’annullamento del voto di sfiducia, Khan ha tenuto un discorso nuovamente molto agguerrito. La richiesta sottoposta al vice presidente dell’Assemblea Nazionale, sottolineava il premier, era basata su una delibera del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, a cui avevano preso parte anche i più alti vertici militari, secondo il quale la mozione di sfiducia era il risultato di “interferenze straniere”. Khan confermava poi come il governo che aveva mandato il messaggio all’ambasciatore pakistano era ovviamente quello americano, nella persona dell’assistente al segretario di Stato per l’Asia Centrale e Meridionale, Donald Lu. Incontri in cui si erano concordate le mosse contro il governo, sempre secondo Khan, erano avvenuti anche nell’ambasciata USA a Islamabad alla presenza, tra gli altri, di deputati del suo partito.

Dopo gli sviluppi a sorpresa della seduta in parlamento, su richiesta di Imran Khan, il presidente pakistano Alvi ha sciolto l’Assemblea Nazionale. Il primo ministro e il suo partito puntano ora a capitalizzare in un’elezione anticipata l’ostilità alimentata nel paese contro i partiti e i singoli politici che avrebbero orchestrato il rovesciamento del governo eletto in collaborazione con potenze straniere. Se la Corte Suprema dovesse dichiarare legittimi i fatti di domenica, Khan entrerà in campagna elettorale cercando di far passare in secondo piano le difficoltà economiche che, negli ultimi mesi, avevano consentito ai suoi oppositori di far leva sul malcontento diffuso tra la popolazione pakistana. Nell’eventualità di un verdetto contrario al premier, invece, si prospetta la formazione di un nuovo governo con un’impronta filo-occidentale, probabilmente guidato dal leader del PML-N, Shahbaz Sharif. La scadenza naturale dell’attuale legislatura è prevista entro l’agosto del 2023.

La posizione dei militari risulterà forse decisiva in questo contesto, come insegna la storia del Pakistan. In molti nelle ultime settimane hanno insistito sulla freddezza dei militari nei confronti di quello che era stato un loro protetto, soprattutto per via dei timori di un allontanamento di Islamabad dalla tradizionale alleanza con Washington. È possibile che in certi ambienti delle forze armate e della classe dirigente pakistana in generale si veda il conflitto tra Russia e Ucraina come un’occasione per appianare le divergenze crescenti tra il loro paese e gli Stati Uniti, soprattutto per sfruttare il dilemma strategico in cui l’India è piombata dopo l’inizio delle operazioni militari di Mosca.

Delhi, com’è noto, è l’arcinemico storico del Pakistan e, nonostante l’insistenza degli USA e dei loro alleati in Europa e in Asia, per ragioni di carattere strategico continua a rifiutarsi di denunciare le azioni della Russia. Le tensioni tra India e Stati Uniti rappresenterebbero quindi un incentivo al riavvicinamento tra Islamabad e Washington, ma le resistenze di Imran Khan sembrano poggiare su fondamenta solide, ovvero i legami con Russia e Cina, e gli stessi militari non appaiono forse del tutto allineati su posizioni filo-americane. Infatti, almeno ufficialmente, i vertici delle forze armate hanno per ora dichiarato la loro neutralità nello scontro politico in atto.

Al di là del merito delle iniziative di Khan, è impossibile non collegare le interferenze occidentali, decisamente ben documentate, alle manovre politiche per sfiduciare il suo governo. Oltre al messaggio recapitato a inizio marzo dal dipartimento di Stato americano tramite una lettera che il primo ministro avrebbe poi presentato alla già ricordata riunione del Consiglio per la Sicurezza Nazionale, alcuni giorni dopo l’esplosione del conflitto ucraino ben 23 ambasciatori accreditati in Pakistan avevano emesso un insolito comunicato per chiedere a Islamabad di denunciare la Russia.

A livello simbolico aveva avuto un peso enorme il fatto che Khan si trovasse in visita a Mosca il giorno stesso dell’annuncio dell’inizio delle operazioni militari russe. Non è naturalmente solo una denuncia formale quella che l’Occidente chiedeva al primo ministro, bensì un’inversione di rotta relativamente ai rapporti con Mosca, rafforzatisi considerevolmente negli ultimi anni dopo che i due paesi erano schierati su fronti opposti ai tempi della Guerra Fredda.

Ci sono però implicazioni ancora più ampie nella guerra “ibrida” contro il governo di Islamabad. Ciò che ha fatto di Imran Khan il più recente candidato al cambio di regime è in sostanza la politica estera indipendente a cui si è ispirato finora e che ha portato il Pakistan a partecipare ai piani di integrazione regionale della Cina. Islamabad e Pechino lavorano da tempo al cosiddetto “Corridoio Economico Sino-Pakistano” (CPEC), cioè una serie di progetti commerciali e infrastrutturali da oltre 60 miliardi di dollari che dovrebbero collegare i due paesi nell’ambito della “Nuova Via della Seta” cinese (“Belt and Road Initiative”). A differenza della Russia, Pechino è un alleato storico del Pakistan e la partnership ora al centro degli attacchi americani si era ulteriormente consolidata proprio in seguito all’approfondirsi dei legami tra USA e India in funzione anti-cinese.

Per il peso che il Pakistan può vantare – in termini di popolazione, di influenza nel mondo islamico e per il possesso di armi nucleari – l’eventuale esito favorevole a Imran Khan dello scontro politico in corso rappresenterebbe un nuovo pesantissimo colpo per le mire di Washington e gli sforzi americani di arrestare le tendenze multipolari promosse da Russia e Cina. Una serie di fattori interni ed esterni rende in ogni caso ancora molto precaria la posizione del primo ministro, la cui sorte sarà nell’immediato decisa dalla Corte Suprema pakistana.

Se anche dovessero arrivare per lui buone notizie dai tribunali e successivamente dalle urne, assieme alle pressioni di natura strategica riesploderanno quasi certamente anche quelle economiche. In questo caso lo strumento di Washington sarà il Fondo Monetario Internazionale (FMI) che ha già sospeso un prestito da sei miliardi di dollari al Pakistan dopo l’arretramento di Khan sulle “riforme” che come sempre vengono richieste in cambio. Il governo di Islamabad aveva  agito in questo modo per via dell’impatto che le misure avevano avuto sulla popolazione, ma il ricatto economico americano potrebbe riattivarsi in fretta se le manovre per rimpiazzare l’attuale primo ministro con una figura meglio disposto verso l’Occidente dovessero essere definitivamente frustrate.