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Categoria: Esteri
di Raffaele Matteotti

I lettori di Topolino ricorderanno certo i famosi trilioni di Paperone. Molti però, pur ricordando la parola, non hanno mai saputo a che quantità esatta si riferisse. Un trilione equivale a un milione di milioni, o a mille miliardi. Tradotto in milioni di dollari è una cifra spaventosa ed è la soglia superata da quello che sarà il budget dell’invasione dell’Iraq.
Per dare un’idea della differenza tra tale cifra e le previsioni dell’Amministrazione Usa, basta pensare al licenziamento del sig. Lawrence Lindsey, che sei mesi prima dell’invasione fu cacciato per aver previsto un costo della Guerra tra i cento ed i duecento miliardi di dollari, mentre Bush diceva solo settanta miliardi.
A seguito dello studio dell’economista J. Stiglitz (già premio Nobel) che prevede un conto totale tra uno e due trilioni di dollari, anche i commentatori più vicini ai conservatori non hanno potuto fare a meno di notare che qualunque manager faccia una previsione di costi sbagliano di oltre il 97%, verrebbe immediatamente licenziato. A Bush saranno fischiate le orecchie. Altri quotati economisti hanno fatto notare come questa enorme quantità di dollari sia stata sostanzialmente presa a prestito e che il bilancio statale, già depauperato dalla politica no-tax di Bush, sta per affrontare anche l’entrata in pensione dei baby-boomer. Insomma un pessimo quadro dal quale non sarà possibile evadere riducendo le spese militari o tagliando l’assistenza medica, già peraltro ai minimi.
Atri analisti hanno fatto notare come la cifra rimanga contenuta anche perché ai deceduti e agli invalidi militari non vengono riconosciuti risarcimenti in linea con quelli del mercato assicurativo civile e che, in ogni caso, le spese per assistere l’alto numero di invalidi di guerra (muoiono meno soldati grazie alle migliori protezioni, ma così aumenta il numero degli invalidi, molto costosi da mantenere) saranno molto più alte di quanto previsto.
Il moderno warfare americano riesce a ridurre le morti, ma non i colpiti. Questo provoca un numero molto più alto di feriti per ogni caduto rispetto alle guerre precedenti, con alte percentuali di invalidi permanenti e un numero altissimo di casi di BSD (Battle Stress Disorder), il disagio mentale che colpisce i reduci, che richiede anch’esso trattamenti molto costosi e prolungati nel tempo.

Lo studio non è caduto dal nulla, già da tempo era chiaro che “alcune centinaia di miliardi di dollari” fosse la misura alla quale attenersi al di là dei proclami dell’Amministrazione, ma il superamento della soglia psicologica del trilione sembra sia riuscita a far vibrare le corde di molti deputati e senatori.

Di fronte a questa montagna di denaro impallidiscono le misere cifre destinate alla ricostruzione irachena, circa venti miliardi di dollari provenienti dalle rendite petrolifere irachene. Ma fa ancora più impressione il fatto che tale cifra sia saccheggiata da malversazioni, inefficienze e da una tassa occulta sulla sicurezza per la quale il 25% dei fondi di ogni progetto se ne sono andati in spese per la sicurezza, quando non siano stati dirottati del tutto, come i fondi previsti per l’istruzione che sono stati destinati alla formazione dei militari iracheni.

Il 7 dicembre scorso, in sordina, Bush ha deciso l’eutanasia dell’Iraq Reconstruction Management Office (IRMO), gestito dal Pentagono e il trasferimento delle sua competenze al Dipartimento di Stato della signora Rice; un’ammissione di responsabilità evidente, anche se passata in sordina.
Il disastro è evidente, non solo in Iraq, dove si sognano le condizioni di vita dei tempi di Saddam, ma anche nelle parole dell’Amministrazione ed è solo grazie ad una stampa prona alle esigenze del governo che riesce ad evitare lo scandalo.

Nel 2003 il presidente Bush affermava: “In molte zone le infrastrutture sono rimaste al livello anteguerra, che è soddisfacente, ma non è l’obiettivo finale. L’obiettivo finale per le infrastrutture è quello di renderle le migliori della regione”.
Oggi il invece il generale di brigata del Genio, William McCoy, dice: Gli Stati Uniti non hanno mai detto di voler ricostruire completamente l’Iraq, ma solamente di voler porre le basi perché ciò sia possibile”. Finiti i soldi per la ricostruzione, Bush si è appellato alla coalizione dei “volenterosi” per reperire fondi per la ricostruzione, raccogliendo scarso entusiasmo e ancora meno denari.

I motivi di bilancio sono la molla che sta spingendo l’amministrazione USA a ridurre il contingente in Iraq ed Afghanistan, visto che all’attuale ritmo di 5.6 miliardi di dollari di spesa corrente mensile solo per l’Iraq non è compatibile con il bilancio federale e che non si potrà andare avanti per molto a depredarlo a colpi di extra contabili. Si avvicinano le elezioni di mid-term e neppure i parlamentari repubblicani si vogliono presentare ai loro elettori a mani vuote. Tutto questo mentre i militari americani in Iraq continuano a sparare milioni di proiettili al mese e a buttare costosissimi ordigni in bombardamenti aerei quotidiani, non esattamente uno scenario che inclini ad un futuro risparmio.

Questo senza considerare che i cittadini americani stanno pagando di tasca loro un altro costo occulto: l’aumento dei carburanti. Aumento che ha beneficiato le compagnie petrolifere, tanto da spingere il Senato a proporre una tassa una tantum sugli stratosferici guadagni che hanno messo a segno grazie alla guerra. L’ipotesi è stata sdegnosamente respinta dalla compagnie e dai loro lobbysti, che infatti l’hanno affossata, ma fa letteralmente imbestialire i l’americano comune, poco incline a contribuire all’esportazione di democrazia e al contemporaneo arricchimento delle compagnie ogni volta che si reca al distributore.

Francis Fukuyama, il politologo noto per le sue affermazioni sulla fine della storia, ha affermato tempo fa: “se Bush fosse andato dagli americani chiedendo qualche centinaio di miliardi di dollari e qualche migliaio di vite per portare la democrazia in Iraq, gli avrebbero riso in faccia”.
Ora che il conto ha raggiunto e superato la soglia del trilione, non ride nessuno.