Bombardamenti, rastrellamenti, fucilazioni, distruzioni, deportazioni, arresti
e torture. Sono le "azioni" che l'Armata di Putin compie quotidianamente
nella tormentata terra della Cecenia dove la resistenza a Mosca si fa sempre
più forte. Perché c'è uno spirito d'indipendenza senza
eguali che i media russi ignorano volutamente sostenendo che l'azione delle
"truppe speciali" è concentrata solo sulla lotta al terrorismo.
Di conseguenza, il Cremlino cerca di ovattare la situazione facendo leva sugli
appetiti economici dell'Ovest. Una prova l'abbiamo avuta con l'ex premier Berlusconi,
il quale si era gettato tra le braccia dell' "amico Volodia" (Putin),
senza mai far cenno al genocidio nell'area del Caucaso. E l'unica volta che
si ricordò di Grozny lo fece per affermare che Putin aveva ragione perché
lottava contro il terrorismo. Ed ora, nonostante le manovre diplomatiche, politiche
ed economiche attuate per nascondere la realtà cecena, sul Cremlino piomba
come un macigno la denuncia del "Comitato Internazionale della Croce Rossa"
(Circ) che apre un nuovo contenzioso con Mosca e la sua politica caucasica.
Il Circ affronta, infatti, la questione dei prigionieri ceceni e della
loro deportazione nei molti "campi di lavoro" che si trovano oltre
i confini del Caucaso e che sono definiti, con un eufemismo, come "centri
di rieducazione". Si apre così la pagina di una nuova rete di "Gulag" (è
il triste acronimo di Gosudarstvennoe upravlienje lagerej, amministrazione
statale dei campi di prigionia di staliniana memoria) che è, a tutti
gli effetti, una sorta di Guantanamo o di Abu Ghraib. Alla faccia della Convenzione
dell'Onu contro la tortura e altri trattamenti e punizioni crudeli, inumani
e degradanti.
Il Circ, a tal proposito, si era organizzato per compiere - già
dal settembre 2004 - un'indagine in questi lager dove si trovano rinchiusi i
prigionieri ceceni: centinaia e centinaia di deportati dei quali non si conoscono
né nomi né luoghi di origine. A nulla sono valse, sino ad oggi,
le richieste della Croce Rossa Internazionale. Il Cremlino ha sempre smentito
l'esistenza di un nuovo "Gulag" ed ha reagito - anche in questi giorni
- alle critiche statunitensi relative ad un'asserita regressione della democrazia
replicando che "non esiste un unico modello di democrazia applicabile a
tutti". In pratica i russi hanno sbattuto la porta in faccia al vice presidente
americano Dick Cheney che dalla lituana Vilnius (dove si trovava per un vertice
dei Paesi baltici e del Mar Nero, più Ue e Usa) ha fatto cenno alla situazione
cecena ricollegandosi ai problemi della democrazia. Ma il Circ ha fatto
subito sapere che non interessano tanto le posizioni americane (visti i fatti
di Guantanamo e le azioni in Iraq, ultime quelle della strage di Haditha) quanto
l'esistenza nel territorio russo di nuovi "Gulag" destinati ad ospitare
i ceceni e quanti nel Caucaso organizzano la resistenza anti-russa. Si delinea
così la punta di un iceberg molto grande, quanto sconosciuto nell' Europa
liberal-democratica. Con i ceceni considerati come combattenti illegali o "terroristi"
e, quindi, automaticamente estranei alla Convenzione di Ginevra.
Ed ecco che le fonti di Grozny e gli ambienti russi che si battono per la difesa
dei diritti umani denunciano le condizioni di detenzione (regime di denutrizione
e assenza di una normale assistenza medica) e rendono noti gli indirizzi delle
prigioni e dei campi dove, quotidianamente, sono rinchiusi quanti - in Cecenia,
nel Dagestan e in Inguscetija - cadono quotidianamente nelle mani delle truppe
russe. Una volta catturati i combattenti sono immediatamente trasportati nei
"Gulag" dell'immenso paese. C'è, infatti, la preoccupazione
che le organizzazioni della resistenza possano effettuare incursioni nelle carceri
locali.
Proprio per questo i campi del "Gulag" di Putin si trovano nelle lontane
zone della Siberia e dell'Estremo nord. In particolare nell'Oriente, come Magadan
- che è considerata la capitale del freddo - e Jakutsk nella repubblica
Saha. E poi Vorkuta a nord degli Urali e Novosibirsk nel cuore della Siberia.
Lager dove sono rinchiusi molti ceceni sono poi quelli delle zone di Petrozavodsk,
in Carelia; di Kaliningrad nella regione di Mosca, di Krasnodar, di Novgorod
e di Piatigorsk. Grandi campi di lavoro sono poi quelli della Mordovia (qui
c'è la massima concentrazione di prigionieri politici che abbiano commesso
delitti considerati particolarmente gravi contro lo Stato); di Taganrog (nella
provincia di Rostov); di Kudimrak (nella provincia di Perm) e di Samara nel
sud della Russia.
In questo tragico elenco c'è poi la zona di Mozajsk, una colonia penale
a circa 100 km. da Mosca. Il lager locale è riservato a quei giovani
che sono restati vittime delle rappresaglie dell'Armata di Putin. E così
Mozajsk - che fino ad oggi era nota per il suo antico centro medioevale e la
celebre icona che presenta un San Nicola che brandisce la spada per difendere
la fede e il Cremlino - è divenuta un "campo" tutto ceceno.
Sull'intera vicenda c'è, è ovvio, il silenzio di Mosca. Con un
Putin che nel marzo del 2001 nel corso di un collegamento via Internet disse
ai suoi cittadini che: "L'esercito russo non ha mai condotto alcuna campagna
contro il popolo ceceno ed è stato solo costretto a rispondere alla sfida
lanciata dagli estremisti e dai terroristi internazionali che hanno aggredito
il Daghestan. Noi riteniamo che quanto fa l'esercito russo è volto a
liberare il popolo ceceno dai terroristi che hanno assunto il potere e compromettono
l'Islam aggredendo i territori confinanti". Questo, in sintesi, il "credo"
del capo del Cremlino che ha costruito una carriera folgorante sull'uso dei
media, ma che quando parla al paese sembra intento più a un interrogatorio
che a un'esortazione politica.
Intanto Croce Rossa Internazionale ed Amnesty International continuano
le loro battaglie cercando di far filtrare dai lager nomi e notizie e, qualche
volta, anche fotografie.
Ma quanti sono coloro che soffrono in silenzio? Putin - che porta avanti una
politica schizofrenica e spesso anche "antiamericana" - è uno
specialista nella mistificazione. Ricordiamoci che il vecchio Henry Kissinger,
incontrandolo ancora negli anni di San Pietroburgo, avanzò, con perfetta
flemma diplomatica, questa domanda-risposta: "Lei viene dai servizi
segreti? Anch'io". Da allora il marchio di fabbrica del Presidente
russo è restato indelebile e più che mai significativo. E' stato
anche affermato che la sua provenienza dal Kgb, la spietata determinazione
con cui sta schiacciando la rivolta cecena e l'indifferenza di fronte agli appelli
occidentali per la soluzione diplomatica nel Caucaso, ne fanno un personaggio
con cui - per dirla con Lord Montgomery - non viene voglia di andare a caccia
di leoni nel deserto.