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Categoria: Esteri
di Carlo Benedetti

Bombardamenti, rastrellamenti, fucilazioni, distruzioni, deportazioni, arresti e torture. Sono le "azioni" che l'Armata di Putin compie quotidianamente nella tormentata terra della Cecenia dove la resistenza a Mosca si fa sempre più forte. Perché c'è uno spirito d'indipendenza senza eguali che i media russi ignorano volutamente sostenendo che l'azione delle "truppe speciali" è concentrata solo sulla lotta al terrorismo.
Di conseguenza, il Cremlino cerca di ovattare la situazione facendo leva sugli appetiti economici dell'Ovest. Una prova l'abbiamo avuta con l'ex premier Berlusconi, il quale si era gettato tra le braccia dell' "amico Volodia" (Putin), senza mai far cenno al genocidio nell'area del Caucaso. E l'unica volta che si ricordò di Grozny lo fece per affermare che Putin aveva ragione perché lottava contro il terrorismo. Ed ora, nonostante le manovre diplomatiche, politiche ed economiche attuate per nascondere la realtà cecena, sul Cremlino piomba come un macigno la denuncia del "Comitato Internazionale della Croce Rossa" (Circ) che apre un nuovo contenzioso con Mosca e la sua politica caucasica. Il Circ affronta, infatti, la questione dei prigionieri ceceni e della loro deportazione nei molti "campi di lavoro" che si trovano oltre i confini del Caucaso e che sono definiti, con un eufemismo, come "centri di rieducazione". Si apre così la pagina di una nuova rete di "Gulag" (è il triste acronimo di Gosudarstvennoe upravlienje lagerej, amministrazione statale dei campi di prigionia di staliniana memoria) che è, a tutti gli effetti, una sorta di Guantanamo o di Abu Ghraib. Alla faccia della Convenzione dell'Onu contro la tortura e altri trattamenti e punizioni crudeli, inumani e degradanti.
Il Circ, a tal proposito, si era organizzato per compiere - già dal settembre 2004 - un'indagine in questi lager dove si trovano rinchiusi i prigionieri ceceni: centinaia e centinaia di deportati dei quali non si conoscono né nomi né luoghi di origine. A nulla sono valse, sino ad oggi, le richieste della Croce Rossa Internazionale. Il Cremlino ha sempre smentito l'esistenza di un nuovo "Gulag" ed ha reagito - anche in questi giorni - alle critiche statunitensi relative ad un'asserita regressione della democrazia replicando che "non esiste un unico modello di democrazia applicabile a tutti". In pratica i russi hanno sbattuto la porta in faccia al vice presidente americano Dick Cheney che dalla lituana Vilnius (dove si trovava per un vertice dei Paesi baltici e del Mar Nero, più Ue e Usa) ha fatto cenno alla situazione cecena ricollegandosi ai problemi della democrazia. Ma il Circ ha fatto subito sapere che non interessano tanto le posizioni americane (visti i fatti di Guantanamo e le azioni in Iraq, ultime quelle della strage di Haditha) quanto l'esistenza nel territorio russo di nuovi "Gulag" destinati ad ospitare i ceceni e quanti nel Caucaso organizzano la resistenza anti-russa. Si delinea così la punta di un iceberg molto grande, quanto sconosciuto nell' Europa liberal-democratica. Con i ceceni considerati come combattenti illegali o "terroristi" e, quindi, automaticamente estranei alla Convenzione di Ginevra.

Ed ecco che le fonti di Grozny e gli ambienti russi che si battono per la difesa dei diritti umani denunciano le condizioni di detenzione (regime di denutrizione e assenza di una normale assistenza medica) e rendono noti gli indirizzi delle prigioni e dei campi dove, quotidianamente, sono rinchiusi quanti - in Cecenia, nel Dagestan e in Inguscetija - cadono quotidianamente nelle mani delle truppe russe. Una volta catturati i combattenti sono immediatamente trasportati nei "Gulag" dell'immenso paese. C'è, infatti, la preoccupazione che le organizzazioni della resistenza possano effettuare incursioni nelle carceri locali.
Proprio per questo i campi del "Gulag" di Putin si trovano nelle lontane zone della Siberia e dell'Estremo nord. In particolare nell'Oriente, come Magadan - che è considerata la capitale del freddo - e Jakutsk nella repubblica Saha. E poi Vorkuta a nord degli Urali e Novosibirsk nel cuore della Siberia.
Lager dove sono rinchiusi molti ceceni sono poi quelli delle zone di Petrozavodsk, in Carelia; di Kaliningrad nella regione di Mosca, di Krasnodar, di Novgorod e di Piatigorsk. Grandi campi di lavoro sono poi quelli della Mordovia (qui c'è la massima concentrazione di prigionieri politici che abbiano commesso delitti considerati particolarmente gravi contro lo Stato); di Taganrog (nella provincia di Rostov); di Kudimrak (nella provincia di Perm) e di Samara nel sud della Russia.
In questo tragico elenco c'è poi la zona di Mozajsk, una colonia penale a circa 100 km. da Mosca. Il lager locale è riservato a quei giovani che sono restati vittime delle rappresaglie dell'Armata di Putin. E così Mozajsk - che fino ad oggi era nota per il suo antico centro medioevale e la celebre icona che presenta un San Nicola che brandisce la spada per difendere la fede e il Cremlino - è divenuta un "campo" tutto ceceno.

Sull'intera vicenda c'è, è ovvio, il silenzio di Mosca. Con un Putin che nel marzo del 2001 nel corso di un collegamento via Internet disse ai suoi cittadini che: "L'esercito russo non ha mai condotto alcuna campagna contro il popolo ceceno ed è stato solo costretto a rispondere alla sfida lanciata dagli estremisti e dai terroristi internazionali che hanno aggredito il Daghestan. Noi riteniamo che quanto fa l'esercito russo è volto a liberare il popolo ceceno dai terroristi che hanno assunto il potere e compromettono l'Islam aggredendo i territori confinanti". Questo, in sintesi, il "credo" del capo del Cremlino che ha costruito una carriera folgorante sull'uso dei media, ma che quando parla al paese sembra intento più a un interrogatorio che a un'esortazione politica.
Intanto Croce Rossa Internazionale ed Amnesty International continuano le loro battaglie cercando di far filtrare dai lager nomi e notizie e, qualche volta, anche fotografie.
Ma quanti sono coloro che soffrono in silenzio? Putin - che porta avanti una politica schizofrenica e spesso anche "antiamericana" - è uno specialista nella mistificazione. Ricordiamoci che il vecchio Henry Kissinger, incontrandolo ancora negli anni di San Pietroburgo, avanzò, con perfetta flemma diplomatica, questa domanda-risposta: "Lei viene dai servizi segreti? Anch'io". Da allora il marchio di fabbrica del Presidente russo è restato indelebile e più che mai significativo. E' stato anche affermato che la sua provenienza dal Kgb, la spietata determinazione con cui sta schiacciando la rivolta cecena e l'indifferenza di fronte agli appelli occidentali per la soluzione diplomatica nel Caucaso, ne fanno un personaggio con cui - per dirla con Lord Montgomery - non viene voglia di andare a caccia di leoni nel deserto.