L'appuntamento per i bielorussi è domenica 19 marzo quando si svolgeranno
le elezioni per il rinnovo della Presidenza. L'atmosfera generale è pessima
e si attende - a dir poco - un finale spumeggiante
A nulla valgono (almeno
secondo gli osservatori occidentali) le tante e tante affermazioni dell'attuale
dirigenza su una reale stabilità e su un'economia che resiste all'urto
della transizione post-sovietica. Il Presidente Aleksandr Lukascenko (classe
1954, due lauree in agraria, ex funzionario del Pcus, in carica dal 10 luglio
1994 e rieletto nel settembre 2001 con il 75,65%) è impegnato in una
difficilissima battaglia contro un'opposizione che si fa ogni giorno più
forte. Perché appoggiata dalla vicina Polonia e dagli ancor più
vicini Stati Uniti d'America. Lukascenko, invece, ha al suo fianco solo la popolazione
contadina e gran parte della classe operaia. Quanto alla Russia, è riuscito
a mantenere buonissimi rapporti con il Cremlino di Putin, sottolineando in ogni
occasione il carattere slavo che unisce i due popoli. Ma il dissenso interno è pur sempre notevole anche perché è
fomentato, appunto, da precisi ambienti collegati a Varsavia e a Washington.
I polacchi sono quelli di Solidarnosc e delle strutture più reazionarie
della Chiesa cattolica. Vedono in Lukascenko un "servo di Mosca" e
un rappresentante della più stretta ortodossia, religiosa e sovietica.
Sono poi favoriti dalla vicinanza territoriale e dal fatto che in Bielorussia
moltissime sono le famiglie d'origine polacca che videro, con il crollo dell'Urss,
la possibilità di staccare la Bielorussia dal rapporto con Mosca e da
una Varsavia socialcomunista.
E così, proprio in questa campagna elettorale, riemergono vecchi rancori
e vecchie posizioni improntate al nazionalismo più reazionario. Su tutto
grava, più che mai pesante, la mano degli Usa, che considerano la Bielorussia
- seguendo i diktat di Bush e della Rice - come uno stato canaglia nel
cuore dell'Europa.
Intanto Minsk ha minacciato ritorsioni contro il "Belarus Democracy
Act", la legge con cui gli Usa hanno tagliato l'assistenza economica
al Paese, aiutando invece le organizzazioni del dissenso. Una riedizione, quindi,
di quanto avvenne nell'Urss già nei primi anni della perestrojka
gorbacioviana. Ma Lukascenko, sfoggiando posizioni antioccidentali sempre più
estreme e marcate, risponde a Washington: "Non c'interessa la vostra libertà
perché è macchiata di sangue e puzza di petrolio".
Parte così da lontano la campagna di denigrazione di un gruppo dirigente
bielorusso colpevole di non aver abiurato alle idee dell'Urss e di voler mantenere
nel paese strutture ed idee che nel periodo sovietico avevano pur mostrato la
loro validità.
Ma l'attacco a Lukasenko non è solo circoscritto alla situazione contingente.
Gli Usa sanno bene che Minsk è anche la capitale della Csi, la Confederazione
degli Stati Indipendenti, voluta da Mosca e destinata a ricucire molti strappi
segnati dal crollo dell'Urss.
E' appunto nella Csi che la Bielorussia svolge un ruolo di tutto valore. Misk
è sede della capitale della Confederazione ed è il punto d'incontro
tra le realtà geopolitiche dell'ex Unione Sovietica. Di conseguenza,
eliminato dal potere il gruppo di Lukasenko, gli americani avrebbero via libera
per un'azione di forte e diretta penetrazione. Non tanto e non solo contro la
realtà geopolitica slava, quanto contro l'intera realtà della
Confederazione. Ed è questo quello che si teme a Mosca negli ambienti
interessati ad ostacolare l'espansionismo statunitense nell'Est Europa.
Ma ecco i fatti relativi a questa campagna americana contro Minsk. C'è
subito da rilevare che il Paese (come già avviene per l'Iran, l'Iraq,
Cuba, la Corea del Nord, la Libia e lo Zimbabwe) è definito come uno
degli "avamposti della tirannia"; inviso, quindi, alla diplomazia
Usa. E a tutto questo va aggiunto che, dopo l'avvicinamento tra Russia ed Usa
e la svolta filoeuropea della vicina Ucraina, oggi la Bielorussia di Lukascenko
rischia di restare più che mai isolata.
E l'Europa? C'è un giallo diplomatico che non favorisce eventuali azioni
distensive: l'Unione Europea dichiara quattro membri del governo di Misk "persone
non grate" perché - sostiene - coinvolte nella scomparsa d'esponenti
politici e giornalisti. Dal canto suo il Dipartimento di Stato americano si
muove direttamente investendo milioni di dollari per assicurare che le votazioni
in Bielorussia "siano libere e giuste". E così provvede ad
inviare fondi alle organizzazioni che si impegnano nella lotta contro il potere
centrale.
Tutto si svolge, ovviamente, con la pretesa di dare alle interferenze una parvenza
di liceità. E così l'americano Dan Fried, Vice Segretario di Stato
per l'Europa, si incontra - insieme con ufficiali europei - con il principale
candidato dall'opposizione a Lukascenko, Aleksandr Milinkevich (classe 1947,
uno scienziato che parla oltre al bielorusso e al russo, polacco, inglese e
francese). Non si conoscono, ovviamente, i temi del colloquio, ma Dan Fried
si affretta a precisare che né gli Usa né l'Unione Europea hanno
dato il loro sostegno ufficiale alla candidatura di Milinkevich che, comunque,
risulta come un fiduciario della Casa Bianca.
"La nostra posizione non è di scegliere i vincitori. La nostra posizione
è di fare ciò che possiamo per promuovere un'elezione libera e
giusta" dichiara Fried il quale, però, sottolinea subito che "é
tuttavia vero che l'opposizione bielorussa si è unita attorno a Milinkevich
Ed è una opposizione formata da gruppi diversi e con diverse visioni
politiche; tutti però decisi a riconoscersi in una piattaforma di democrazia
e fondamentalmente ad un tipo di patriottismo democratico". E a conclusione
di questo spot in favore dell'opposizione, Fried ricorda che il Congresso americano
ha già inviato 21 milioni di dollari a quegli attivisti che si battono
"per la democrazia in Bielorussia". "Nell'esperienza storica,
- sono sempre parole sue - bisogna fare di tutto per mandare due messaggi: esercitare
la pressione diplomatica verso i regimi autoritari e sostenere la società
civile".
Ed è sull'onda lunga di queste benedizioni d'oltreoceano che l'oppositore
di Lukascenko, Milinkhevic, si sposta nella vicina Lituania, retrovia delle
forze che si oppongono al potere di Misk. Da Vilnius manda a dire: "Non
ho dubbi che il popolo della Bielorussia scenderebbe nelle strade se il governo
cercasse di falsare le elezioni". Un modo chiaro per riallacciarsi a quanto
detto in precedenza dall'americano Fried (Associated Press, 9 febbraio
2006) e cioè che "le dimostrazioni pacifiche sono un diritto e non
andremo certamente noi a suggerire al popolo di non esercitare questo diritto.
Così quello che avverrà, non sarà dovuto a noi. Ma in nessun
caso sosterremo la violenza. Che non è ciò che pratichiamo, né
ciò che favoriamo". Parole che vanno tutte lette in controluce.
E nel grande calderone della lotta politica bielorussa arriva, nei giorni scorsi,
la protesta avanzata a Bruxelles dalla Commissione europea. Qui il commissario
alle Relazioni Esterne, Benita Ferrero-Waldner, si è detta ''seriamente
preoccupata'' per le notizie provenienti dalla Bielorussia "circa l'arresto,
da parte del Kgb, di Aleksandr Kozulin, uno dei due candidati dell'opposizione
alle prossime presidenziali".
Monta, quindi, la campagna contro Lukascenko che in occidente, tra l'altro,
non gode di buona stampa. E' considerato ortodosso e filosovietico. Tanto per
fare alcune citazioni emblematiche ricordiamo che da noi Enzo Bettiza si è
scatenato lanciando contro il Presidente bielorusso una valanga di improperi.
Su "Panorama" lo ha definito "dittatore bielorusso", "nazistalinista",
"minicaricatura di Stalin, Hitler e Milosevic". E ancora: "un
misto di vecchia Urss e di vecchissimo principato tartaro" . Definizioni
che la radio americana rilancia dall'etere (in bielorusso)
Ora si è alla resa dei conti. In tutto questo c'è anche una appendice
elettorale italiana. Perché per la nuova presidenza di Minsk potranno
votare direttamente quei bielorussi che si trovano attualmente nel nostro Paese.
Che lo dica o no la "Voice of America".