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Categoria: Esteri
di Maurizio Musolino

Una mannaia è calata sulla fragilissima situazione economica dell’Anp all’indomani dell’esito del voto del 25 gennaio. Prima Israele ha deciso di bloccare arbitrariamente il trasferimento di quanto già apparteneva ai palestinesi, ovvero quei tributi che Tel Aviv trattiene alle frontiere sulle merci destinate alle popolazioni di Gaza e Cisgiordania, poi anche l’Unione europea, allineandosi con il coro israelo-statunitense, ha minacciato di sospendere gli aiuti all’Autorità nazionale. Due misure prese in risposta alla vittoria di Hamas. L’espressione più autentica del concetto di libertà e di democrazia che regna in Occidente. Il voto palestinese, infatti sembra proprio non andare giù a molti. Tanti si dicono ancora sorpresi, i più però sapevano bene a cosa si andava in contro e, colpevolmente, non hanno fatto nulla per evitarlo. Fra i tanti rimasti sorpresi dalla vittoria di Hamas nelle recenti elezioni per il rinnovo dell’Assemblea legislativa palestinese, sembrano esserci però anche i leader della stessa formazione islamica. In molti si aspettavano un ottimo risultato, ma pochi erano convinti di doversi confrontare realmente con le responsabilità di un governo. E proprio questa sarà la sfida principale che Hamas si troverà di fronte nelle prossime settimane. Saranno infatti due i fronti sui quali Hamas dovrà dimostrare le sue capacità: quello del dialogo con l’occidente e Israele e quello delle risposte alla grave crisi interna. Proprio il secondo fronte rischia di rivelarsi il più ostico perché un conto è accusare altri di corruzione o di incapacità, altro è riuscire a far funzionare una struttura quotidianamente sotto il tiro dei soldati israeliani. Non è un caso che in oltre dieci anni, mai Hamas aveva voluto accettare di condividere con Fatah, il partito di Arafat, le responsabilità di un governo. Fatto originale se si pensa che in tutte le lotte di liberazione nazionale l’idea di un fronte comune ha il sopravvento sulle pur esistenti divisioni. Hamas sapeva bene le difficoltà che tale scelta avrebbe comportato e ha sempre preferito tirarsene fuori, lavorando ad una sua parallela struttura di welfare messa in piedi con gli ingenti contributi sauditi e di altri Stati islamici. Un welfare che è valso ad Hamas l’apprezzamento e il riconoscimento di gran parte del popolo palestinese. Lo stesso che il 25 gennaio gli ha assicurato una ampia maggioranza nel parlamento dell’Anp. Proprio in questo c’è la principale contraddizione. Hamas non riconosce gli accordi di Oslo, ma si trova oggi a doverli gestire. Materia, questa, di un ampio dibattito all’interno dell’organizzazione islamica. E, paradosso dei paradossi, poco importa se, sfiorando il ridicolo, proprio chi in modo ben più pesante di Hamas ha contribuito in questi anni a buttare a mare quell’intesa - cioè il Likud di Netanyhau e Sharon (ma anche Peres) - oggi per legittimare la vittoria di Hamas chiede a quest’ultimo l’accettazione del principio fondante di quegli accordi, ovvero il riconoscimento dell’esistenza dell’altro. Ma il risultato elettorale non parla solo della vittoria di Hamas. Il voto ci dice anche di un partito, Fatah, da sempre ritenuto una sorta di partito-stato, emblema della lotta di un intero popolo, che oggi vive una crisi profonda. Sono di fronte due classi dirigenti, ma sarebbe un grosso errore ridurre lo scontro ad una semplice questione anagrafica. Dentro Fatah in questi decenni hanno convissuto forze molto diverse. C’era una componente marxista, una islamica e altre liberiste. Su tutto e tutti la figura carismatica di Arafat. Oggi queste componenti tirano ognuna dalla propria parte e non è possibile pensare ad una nuova ricomposizione del quadro politico palestinese in breve tempo. Tanto più che molti voti andati questa volta ad Hamas potrebbero essere voti in prestito, in attesa di una riforma di Fatah. Ma qui arriva la seconda nota negativa del voto: il ridimensionamento dei partiti della sinistra laica e progressista. Divisioni all’ennesima potenza ed un personalismo spinto hanno portato queste forze a raccogliere solo le briciole dello disfida Fatah- Hamas. Una loro ricomposizione sarebbe d’obbligo, ma non è possibile sapere se realmente avverrà in tempi brevi. I primi segnali non sono positivi. Intanto però prosegue l’occupazione israeliana e con essa i drammi quotidiani del popolo palestinese. Prosegue anche se nel più assoluto silenzio dei mezzi di comunicazione. Studio, sanità, lavoro, sono diventate chimere per pochi privilegiati. I costi della seconda Intifada sono enormi e non si vedono i risultati positivi. Manca la prospettiva politica e proprio su questa assenza Hamas ha costruito la sua vittoria. Il paradosso e che proprio Hamas è adesso chiamata a trovare questa prospettiva, per il suo interesse ma soprattutto nell’interesse del popolo di Palestina. Del resto parallelamente anche Israele è da tempo governata da chi si è sempre opposto alle coraggiose scelte di Arafat e Rabin. Ariel Sharon non ha mai fatto mistero della sua intenzione di affossare quegli storici accordi. E oggi, con uno Sharon in coma da oltre un mese, le prossime elezioni rappresentano una incognita non meno traumatica di quella palestinese.