La crisi esplosa tra martedì e mercoledì in Corea del Sud ha rappresentato a prima vista il culmine dello scontro in atto da mesi tra il presidente conservatore, Yoon Suk-yeol, e la maggioranza del parlamento (Assemblea Nazionale) guidata dal Partito Democratico di centro-sinistra. Messo alle strette dall’opposizione attorno a questioni giudiziarie e di bilancio, Yoon ha reagito facendo ricorso alla legge marziale, subito bloccata però da una massiccia mobilitazione popolare e da un voto della stessa unica camera del parlamento di Seoul. Le vicende di queste ore hanno implicazioni di vastissima portata, non solo per la tenuta della democrazia formale sudcoreana, ma anche in relazione alle manovre degli Stati Uniti in Estremo Oriente per cercare di contenere la “minaccia” cinese.
La prospettiva più probabile è ora che il presidente Yoon si dimetta o venga deposto dal parlamento. Le tensioni restano tuttavia altissime e per molte ore nella notte tra martedì e mercoledì la Corea del Sud ha rivissuto il pericolo del ritorno a un regime dittatoriale. Yoon aveva annunciato l’imposizione della legge marziale in un intervento televisivo dopo le 22 di martedì. Una decisione che metteva fuori legge tutte le attività politiche, inclusa la sospensione dell’Assemblea Nazionale, e sindacali, così come qualsiasi altra manifestazione di protesta.
Poco dopo, i militari hanno cercato di entrare con la forza nell’edificio che ospita il parlamento per impedire la convocazione dell’assemblea e un voto che avrebbe annullato la decisione del presidente. Allo stesso tempo, centinaia di sudocoreani si sono riuniti all’esterno dell’edificio per chiedere l’arresto di Yoon e impedire l’ingresso delle forze armate. L’aula ha alla fine votato attorno all’una di notte per cancellare lo stato di emergenza, come previsto dalla Costituzione della Corea del Sud. Tutti e 190 i deputati presenti – su un totale di 300 – hanno espresso parere contrario alla decisione di Yoon, tra cui 18 membri del suo Partito del Potere Popolare (PPP).
Dopo il voto, il presidente dell’Assemblea ha assicurato che tutti i militari avevano abbandonato l’edificio, ma il presidente ha atteso più di tre ore prima di tornare davanti alle telecamere e annunciare che la legge marziale era stata ritirata. Nel suo discorso, Yoon ha però ribadito le intenzioni alla base dell’ordine dato appena sei ore prima, cioè la volontà di “salvare il paese dalle forze anti-statali che cercano di paralizzare le funzioni essenziali della nazione e [distruggere] l’ordine costituzionale democratico”. Il presidente, durante il primo intervento nella serata di martedì, aveva bollato i suoi rivali politici come “forze filo-nordcoreane”, riesumando cioè le stesse accuse a cui facevano ricorso le dittature militari sudcoreane nel periodo post-bellico per giustificare l’applicazione della legge marziale e repressioni violente.
L’immediata mobilitazione popolare nella notte di martedì, seguita dalla minaccia dei sindacati di uno sciopero generale a oltranza e di dimissioni di massa di membri della stessa amministrazione presidenziale, ha senza dubbio convinto Yoon e il suo entourage a desistere. Il rischio concreto dello scivolamento in un nuovo regime militare c’è però stato e il tempo trascorso tra il voto del parlamento e la decisione del presidente di annullare lo stato di emergenza è stato senza dubbio impiegato a discutere quali spazi di manovra esistevano per rovesciare l’ordine costituzionale. Ugualmente probabile è che Yoon si sia consultato con l’amministrazione Biden e alla fine abbiano prevalso i timori per la possibile esplosione di una rivolta popolare che avrebbe richiesto l’intervento su vasta scala delle forze armate, con tutte le prevedibili conseguenze in termini di legittimità e discredito a livello internazionale.
La mossa del presidente è comunque collegata alle dinamiche scatenate dalla sua crescente impopolarità, non da ultimo a causa dell’allineamento pressoché totale della politica estera di Seoul alle esigenze strategiche americane. Come ha fatto notare il giornalista e attivista Kiji Noh sul sito di informazione indipendente Consortium News, un fattore decisivo nel far crollare gli indici di gradimento di Yoon è stata l’integrazione del suo paese nell’alleanza militare con il Giappone, l’ex potenza coloniale della Corea del Sud, dove il ricordo della brutale dominazione nipponica tra le due guerre mondiali resta vivissimo. Un’alleanza in funzione anti-cinese e da tempo al centro degli sforzi americani, continuamente frustrati nel recente passato proprio per via delle frizioni storiche tra Tokyo e Seoul.
Il presidente Yoon, assieme alla consorte, è inoltre coinvolto in casi di corruzione e traffico di influenze, mentre è in pieno svolgimento una battaglia in parlamento sull’approvazione del prossimo bilancio. Il Partito Democratico, che detiene la maggioranza all’Assemblea Nazionale dopo le elezioni dello scorso aprile, stava anche avviando procedure di “impeachment” contro vari esponenti dell’amministrazione Yoon e, secondo alcuni, lo stesso presidente era ormai prossimo a essere anch’egli incriminato formalmente.
Proprio l’impeachment è stato invocato da molti tra le file dell’opposizione subito dopo il ritiro della legge marziale. Il Partito Democratico ha presentato una propria mozione per rimuovere il presidente dal suo incarico nella giornata di mercoledì e un voto potrebbe avvenire già venerdì. Per avere successo, il provvedimento deve essere approvato dai due terzi del parlamento e, successivamente, da almeno sei giudici della Corte Costituzionale sudcoreana. È comunque possibile che Yoon possa decidere di dimettersi preventivamente per evitare un umiliante processo pubblico e il voltafaccia esplicito di una parte del suo partito. Molti nel PPP hanno infatti condannato l’iniziativa del presidente, che sarebbe stata presa in accordo con il ministro della Difesa, Kim Yong-hyun, senza nemmeno informare il primo ministro e il resto del gabinetto.
L’uscita di scena del presidente presenterebbe una serie di interrogativi soprattutto per gli Stati Uniti e gli ambienti maggiormente filo-americani in Corea del Sud. Questo paese è un alleato cruciale per Washington e ospita un foltissimo contingente militare americano, nonché armamenti sofisticati come il sistema missilistico THAAD, ufficialmente con scopi difensivi in relazione alla “minaccia” nordcoreana ma in realtà in preparazione di un possibile conflitto con la Cina. Dopo le esitazioni delle precedenti amministrazioni, gli USA avevano trovato in Yoon un docile alleato, disponibile ad assecondare le strategie americane in Asia orientale, basate fondamentalmente sulla militarizzazione spinta per accerchiare e contenere la Repubblica Popolare.
Questa attitudine avrebbe senza il minimo dubbio determinato la sostanziale accettazione da parte dell’amministrazione Biden di un golpe da parte del presidente sudcoreano. D’altra parte, l’ambasciata USA a Seoul è rimasta in silenzio per tutta la durata della crisi tra la proclamazione della legge marziale e la marcia indietro di Yoon dopo il voto del parlamento. Solo quando le tensioni si sono relativamente allentate, gli Stati Uniti hanno emesso una dichiarazione per esprimere preoccupazione circa quanto era accaduto in Corea del Sud.
Ciò che resta dopo i fatti di queste ore è un presidente totalmente al servizio di Washington ormai ultra-screditato sia agli occhi dell’opinione pubblica indigena sia di quella internazionale. Eventuali dimissioni o la rimozione tramite impeachment minacciano di riportare alla guida del paese un esponente del Partito Democratico, che, sia pure tutt’altro che anti-americano, potrebbe come di tradizione perseguire politiche distensive con la Corea del Nord e con la Cina, incidentalmente di gran lunga il primo partner commerciale di Seoul.
Le vicende di queste ore dimostrano infine come la transizione alla democrazia in Sudcorea, dopo decenni di dittature militari e repressioni appoggiate dagli Stati Uniti, nasconda un sistema pervaso tuttora da impulsi autoritari e ferocemente anti-comunisti, pronti a esplodere in situazioni di crisi interne e internazionali come quelle attualmente in corso.