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L’approvazione della Inflation Reduction Act, un mega provvedimento da 400 miliardi di dollari da finanziare con debito pubblico, indica l’intenzione degli Stati Uniti di tornare agli aiuti di stato per le sue imprese e, in prospettiva, di riconvertire al protezionismo l’isteria mercatista vigente dal 1989.

La competizione con Cina, Europa e India, la riduzione della sua influenza sui mercati asiatici e africani, è ulteriormente aggravata dalla sempre maggiore influenza dei paesi BRICS, che insieme producono il 42% del PIL mondiale. Insieme a ciò, il ruolo delle diverse organizzazioni regionali come lo SCO, mettono gli USA di fronte all’evidenza di un declino prospettico difficile da fermare, a meno di non voler scatenare eventi planetari di spaventosa portata per favorire un generale reset del dominio statunitense sull’intero pianeta.

 

La Inflation Reduction Act viene spacciata come un sostegno per la riconversione ecologica industriale, ma in realtà scarica sul resto del mondo la necessità statunitense di poter battere la Cina sul mercato dei prodotti finiti. Il tentativo di cambiare la direzione di marcia viene dalla necessità di ritornare al ciclo di produzione ed esportazione del made in USA così da riproporre - con le buone e con le cattive - la supremazia delle merci statunitensi sui mercati.

Lo si può definire un aggiustamento di tiro ma l’impressione è che rappresenti una vera e propria svolta a 180 gradi della dottrina economica liberista, che potrebbe progressivamente rivedere il misticismo monetarista per riconsiderare la crescita della produzione industriale il volano per eccellenza del PIL.

Che la Casa Bianca debba scontrarsi con il Congresso per far passare la legge è possibile ma non certo; il peso del debito ha superato la soglia massima consentita ma in fondo lo stesso Trump aveva dimostrato sensibilità e approcci parzialmente simili. Lo scontro semmai dovrebbe essere con l’Europa, secondo competitor degli USA sui mercati e che già subisce direttamente e indirettamente sanzioni statunitensi sui suoi prodotti. Gli europei saranno infatti i più danneggiati da questa rivoluzione copernicana dal sapore protezionista, dato che molte delle aziende internazionali tornerebbero a produrre in USA approfittando di incentivi, protezione e sussidi statali, oltre che energia a costo ridotto.

Ma Washington dal lato Europa non ha da temere. Sebbene questo potrebbe risultare motivo di un contrasto forte, eventualmente da portare in sede di WTO, la subordinazione europea agli USA eviterà il formarsi di contenziosi. Il fatto è che la reindustrializzazione degli Stati Uniti sembra passare per il sacrificio dei vassalli europei che, a parte qualche protesta rpiva di energia e fuori tempo, assistono passivamente non solo alla propria desertificazione manifatturiera, ma anche a un incessante deflusso di capitali andato puntualmente a mitigare di quasi 2.000 miliardi di dollari in soli otto mesi la posizione finanziaria netta degli Usa. Già a settembre 2022, secondo i report di Goldman Sachs, l’Europa perdeva ininterrottamente capitali d’investimento, in buona parte reindirizzati proprio verso gli USA, che vedevano così ridurre le loro passività verso l’estero.

Risultato prevedibile visto il contesto di guerra sul territorio europeo. L’instaurazione di un clima finanziario sfavorevole in Europa, determinatasi sulla scia del conflitto russo-ucraino che gli Stati Uniti hanno fomentato ed ora sostengono con ogni mezzo a loro disposizione, ha infatti stimolato la fuoriuscita di liquidità dal “vecchio continente”. 

Se esistesse davvero una Unione Europea, la reazione del vecchio continente prevederebbe misure ad hoc verso gli USA; ma, stando alle parole pronunciate a Davos dalla signora von der Leyen, il tutto si fermerà ad una altrettanto forte iniezione di aiuti pubblici per la produzione green, determinando così uno scontro per accaparrarsi le imprese e le tecnologie migliori. La ricetta della presidente della Commissione europea (che non dimentica mai di essere tedesca e di puntare al cancellierato come prossimo incarico) prevede che ogni paese faccia per sé. Ma questo, mentre non danneggia particolarmente gli USA, diviene seria materia di conflitto interno alla stessa UE, dato che le possibilità finanziarie dei 27 (diversissime tra loro) determinerebbero enormi differenze sia sul piano individuale che regionale.

Anche se a prima vista sembrerebbe logico che la Germania e la Francia, in quanto maggiori produttrici sarebbero le più colpite dall'iniziativa USA, il finanziamento che la UE destinerebbe a sostegno delle economie europee e della loro riconversione green è parametrato sui conti pubblici di ciascun paese e sul rispetto rigido dei parametri di Maastricht (3% di differenziale tra PIL e debito). Un esempio? I fondi in deroga che ogni Paese UE ha potuto utilizzare per il contrasto alla pandemia, sono stati 7,63 per l’Italia, 24,9 per la Francia, 53,6 per la Germania.

Dunque quale sarebbe il risultato della manovra che propone la presidenza della Commissione? Facile: la misura vedrebbe i paesi scandinavi, i Paesi Bassi e la Germania primeggiare, mentre il fianco Sud della UE si ritroverebbe con una manciata di spiccioli.

Ciò scaverebbe un solco ancora più profondo tra diverse aree della stessa Unione e, dal punto di vista politico, la conferma delle misure calibrate sui rispettivi bilanci sancirebbe la fine delle politiche unitarie della UE a tutto vantaggio della Germania e della Francia. Ecco che il disegno imbellettato del “giardino circondato dalla giungla” dipinto da Borrell si vede in tutti i suoi colori. Fuori del giardino l’Occidente è in guerra contro il resto del mondo, ma dentro l’Occidente è guerra di tutti contro tutti.

 

L’economia USA cambia strada?

Sul piano strategico l’approvazione della Inflation Reduction Act rappresenterebbe un primo e parziale cambio di rotta che rivestirebbe un significato politico oltre che economico. Per quanto Washington non abbia mai abbandonato del tutto la politica degli aiuti di stato (che in America latina ebbe come prezzo il mancato accordo sull’ALCA) arrivare ad istituire una legge che mette nero su bianco una nuova modalità di sostegno pubblico all’economia, riportando lo Stato al centro dei processi economici con la funzione di stimolatore e regolatore, configura un autentico cambio di rotta.

Gli USA cambiano strada perché hanno realizzato che né con embarghi né con sanzioni a terzi è possibile colmare il divario tra chi non produce più le merci di cui il mondo ha bisogno e chi invece le produce. Che un debito internazionale è talmente impagabile che lo ha reso una minaccia vacua. Che il know-how tecnologico con il quale ricattavano tre quarti del mondo è ora alla portata di tutti i paesi economicamente più potenti e che dunque non funziona più come leva per imporre gli interessi di Washington sui mercati. Oggi chi produce possiede le conoscenze e le esperienze che rendono ottimali i processi. E la crescita economica di ogni Paese, soprattutto se importante dal punto di vista della sua estensione territoriale, si accompagna alla crescita della sua influenza politica e questo è visto dagli USA come una minaccia al loro dominio planetario. A questo scopo, non certo per quelli dichiarati, nascono le sanzioni commerciali e gli embarghi.

Le sanzioni economiche, dialettica unica degli USA verso il resto del mondo, vengono utilizzate come un bastone sulla testa dei paesi che concorrono con gli USA sui mercati, e coinvolgono 31 paesi che coprono il 72% dell’intera popolazione mondiale. Colpiscono ma non cambiano i quadri d’insieme, non sono sufficienti a ridisegnare le distanze a favore degli USA. E se generano difficoltà per i loro destinatari, colpiscono anche l’economia statunitense, che si vede nell’impossibilità di esportare verso 31 paesi, tra questi i più popolosi della terra.

Da questo primo e pur parziale cambio di rotta nelle politiche industriali emerge l’insufficienza delle misure sin qui adottate per garantirsi il mantenimento del proprio modello pagato da altri. La finanziarizzazione totale dell’economia, la costruzione di valore tutto teorico, basato sul mercato degli scambi azionari e sull’ingegneria finanziaria speculativa, dal 2008 si dimostra come un teorema inadeguato a far fronte alle crisi economiche, cicliche o congiunturali. La sua funzione è ormai solo ideologica: propone la crescita infinita in un mondo di risorse finite e indica l’approdo in un capitalismo senza capitali.

Il reset generale del sistema capitalistico è in corso da anni e pandemie e guerre ne sono aspetti tattici fondamentali. Siamo pericolosamente vicini alla curva discendente di un sistema che ritiene di fare soldi con i soldi, di produrre ricchezza virtuale grazie all’aumento della povertà fattuale, ma che ogni giorno che passa rischia di scoprirsi prima vittima di quella economia di carta con la quale stupidamente si sente padrone del mondo.