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Negli ultimi mesi i partiti hanno alzato una cortina fumogena intorno alle pensioni, ma la settimana scorsa la nebbia si è diradata con il via libera del governo alla manovra. La novità principale è questa: nel 2022 gli italiani potranno andare in pensione anticipata con Quota 102, ossia con almeno 64 anni di età e 38 di contributi. Il nuovo meccanismo prende il posto di quota 100, che permetteva di lasciare il lavoro al compimento dei 62 anni (sempre con 38 di contributi). Varata in via sperimentale nel 2019 dal governo Conte 1, la misura di matrice leghista arriva a scadenza il 31 dicembre di quest’anno e non sarà rinnovata.

 

Ora, su Quota 102 è necessario un chiarimento: il suo obiettivo non è aumentare la flessibilità in uscita, ma rendere meno ripido il cosiddetto “scalone”, ossia gli anni di lavoro in più cui saranno costretti i lavoratori che progettavano di andare in pensione nel 2022 con le regole di Quota 100. Il palliativo, però, è limitato: chi l’anno prossimo compirà 62 o 63 anni ricadrà nelle regole della legge Fornero (che lega l’età pensionabile alla speranza di vita) e quindi per andare in pensione dovrà attendere il 67esimo compleanno.

Nel tentativo di salvare la faccia, la Lega ha ottenuto di inserire nella manovra un fondo da 200 milioni l’anno per il triennio 2022-2024 che garantirà “un’uscita anticipata dai 62 anni” ai lavoratori delle piccole e medie imprese in crisi, senza alcun vincolo contributivo. Una foglia di fico davvero troppo piccola per mascherare la disfatta del Carroccio su una delle sue battaglie più identitarie.

Dopo il green pass, infatti, Mario Draghi ha travolto il partito di Matteo Salvini anche sul fronte previdenziale. Il Presidente del Consiglio è sempre stato l’unico ad ammettere il vero obiettivo della legge di bilancio sulle pensioni: tornare alla “normalità”, ossia alla legge Fornero dura e pura, senza correttivi o scappatoie di sorta. La cancellazione di Quota 100 non si accompagna quindi ad alcun progetto per aumentare in modo alternativo (e magari più efficace) la flessibilità in uscita. Al contrario: Quota 102 è solo uno “scivolo” per ripristinare in modo meno brusco tutta la rigidità concepita dal governo Monti.

Del resto, la riforma del dicembre 2011 fu scritta sotto la dettatura delle istituzioni europee, sulla base di una lettera che portava anche la firma di Draghi, allora numero della Bce. È quindi impensabile che oggi lo stesso uomo si prodighi per cancellare o depotenziare il provvedimento raccomandato 10 anni fa.

Tutto questo i partiti lo sanno benissimo, ma per mesi hanno fatto melina, fingendo di non capire cosa stesse per accadere. Attenti a evitare lo scontro diretto con Palazzo Chigi - da cui sarebbero usciti sconfitti - hanno illuso l’opinione pubblica che lo scopo della trattativa fosse aumentare la flessibilità. “Stiamo ancora lavorando alla riforma delle pensioni con buonsenso e determinazione - diceva non più di una settimana fa Claudio Durigon, responsabile Lavoro della Lega - L’obiettivo è non tornare alla Fornero”.

Ora, parlare di “ritorno alla Fornero” è ingannevole, perché lascia intendere che negli ultimi anni la riforma della professoressa torinese sia stata sostituita da qualcos’altro. Non è così: la legge Fornero è sempre stata in vigore, determinando il pensionamento della maggioranza degli italiani. Dal 2019 è stata introdotta l’alternativa di Quota 100, che però si è rivelata un fallimento.

Al di là dei giudizi negativi di Ocse e Ue, la bocciatura più grave è arrivata dagli italiani: le richieste accettate nel triennio sono state circa 380mila, cioè meno della metà del milione previsto dal governo Conte 1. Il motivo è semplice: uscire dal lavoro con il massimo anticipo significa versare cinque anni di contributi in meno, il che comporta un taglio significativo della pensione. Per questa stessa ragione, Quota 100 avvantaggia gli uomini rispetto alle donne (fra i contribuenti che hanno utilizzato questo canale d’uscita, due su tre sono maschi), i dipendenti pubblici rispetto ai lavoratori del settore privato (perché hanno versamenti contributivi più continui) e i ricchi rispetto ai poveri (più alto è l’assegno, meno svantaggioso è il taglio legato all’anticipo). Si tratta perciò di una misura socialmente iniqua.

In teoria, quindi, i partiti avrebbero dovuto perseguire lo stesso obiettivo indicato dai sindacati, ossia una riforma delle pensioni complessiva, non il ritocco cosmetico inserito nella manovra. Ma una controriforma previdenziale metterebbe a rischio l’arrivo degli aiuti da Bruxelles, e - in ogni caso - avanzare una proposta simile con Draghi a Palazzo Chigi è semplicemente un’assurdità. Di qui, il teatrino degli ultimi mesi.