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Fino a ieri l’altro Sebastian Kurz, cancelliere d’Austria, spalleggiava il despota ungherese Viktor Orban e la sua politica fascistoide in tema di rifugiati. Poi però - non si sa quando - è arrivata la conversione. Al punto che oggi, novello San Paolo sulla via di Damasco, il brillantinato politico viennese si riscopre alfiere senza macchia dello Stato di diritto. Il motivo? Facile: con questa pantomima spera di rallentare l’attivazione del Recovery Fund.

Non è solo nell’impresa. Al suo fianco si schierano la Svezia, la Finlandia e naturalmente l’Olanda del mai domo Mark Rutte. Insomma, i cari vecchi Frugali, quelli che a luglio battagliavano per ridurre i trasferimenti a fondo perduto e irrigidire le condizioni d’accesso al fondo anticrisi creato dall’Europa. Usciti senza grandi risultati dalla trattativa più importante, ora Kurz e i suoi fratelli cercano in ogni modo di allungare i tempi. E, per ora, ci stanno riuscendo.

Il calendario iniziale era il seguente: via libera del Parlamento europeo al Bilancio Ue 2021-2027 e al Recovery Fund entro settembre/inizio ottobre; ratifica dei parlamenti nazionali entro fine 2020; attivazione del Fondo dal primo gennaio e primi esborsi a partire da aprile. Purtroppo, sappiamo già che questo schema è saltato: dobbiamo solo capire di quanti mesi sarà il ritardo.

Al centro della questione c’è la “rule of law”, la regola che impone il rispetto dei principi dello Stato di diritto per accedere ai soldi europei. I “Frugal Four” chiedono un’applicazione rigida della norma, che invece è rifiutata dai Paesi di Visegrad (in primis Ungheria e Polonia), dove lo Stato di diritto non va granché di moda.

Sullo sfondo, non bisogna dimenticare che a marzo del 2021 si svolgeranno le elezioni politiche olandesi. Sembrano un dettaglio, ma in realtà sono una chiave di lettura: incalzato dall’estrema destra, Rutte cerca di rastrellare consensi facendo slittare l’arrivo dei soldi agli scialacquatori mediterranei. E, già che c’è, nel frattempo veste anche l’armatura da paladino della democrazia.

A farne le spese è in primo luogo l’Italia, il Paese a cui è destinata la fetta più grande della torta (208 miliardi su 750). Al termine dell’ultimo Consiglio europeo, Giuseppe Conte ha detto che il nostro Paese “non permetterà a nessuno di alterare o procrastinare l'entrata in vigore del Recovery Fund”. E ancora: “Si deve lavorare per attuare in tempi rapidi il programma. Gli interventi attuativi non possono mettere in discussione l'impegno politico assunto quando tutta l'Europa ci guardava, nell'arco di un negoziato durato quattro giorni e quattro notti lo scorso luglio”.

Peccato che anche Rutte si appelli all’accordo della scorsa estate: “In questa fase c’è un impegno politico da parte del nostro Parlamento sul pacchetto concordato a luglio - ha detto il premier olandese - Parte dell’accordo era la condizionalità legata al rispetto dello Stato di diritto, che è stata messa nero su bianco. Non è insolito che in una fase come questa ci siano dibattiti intensi sui dettagli più minuti”.

Per fortuna dell’Italia, al momento la presidenza europea è in mano alla Germania, che lavora sottotraccia per raggiungere un compromesso. I tedeschi hanno messo sul tavolo una proposta di mediazione che annacqua la “rule of law” in favore dei Paesi di Visegrád (i soldi verrebbero bloccati solo in caso di violazioni accertate dello Stato di diritto). L’ipotesi è stata respinta dai Frugali e ora Berlino potrebbe cercare un punto di caduta rendendo la regola un po’ più rigida.

L’unica certezza è che questo gioco tattico non potrà durare per sempre, altrimenti l’Italia non sarà l’unico Paese a rimetterci. In caso di mancata approvazione del bilancio europeo entro il 2020, infatti, dal primo gennaio scatterebbe l’esercizio provvisorio e i Frugali perderebbero i loro sconti sui versamenti a Bruxelles. L’accolita di Visegrad, invece, vedrebbe sfumare a sua volta il fiume di miliardi in arrivo con il Recovery Fund. E nemmeno loro se lo possono permettere.