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di Giovanna Pavani

Ottantaquattro provvedimenti diversi, un lenzuolo di disegno di legge di settantaquatro pagine e un decreto altrettanto corposo che certo non cambieranno l'Italia ma, almeno, ci aiuteranno a vivere un po' meglio. Potrebbe essere riassunta in questo modo la fase 2 delle liberalizzazioni a firma di Pierluigi Bersani, che segna anche l'inizio del nuovo corso del governo Prodi, nonostante una cospicua parte della stessa maggioranza, a partire da Rutelli, avrebbe preferito meno timidezze e un più robusto afflato riformista. Però si cominciano a incidere piaghe importanti, soprattutto dal punto di vista dei consumatori, risolvendo qualche inutile complicazione e facendo risparmiare - che non fa mai male - perfino qualche centesimo in più. Si dovesse esprimere un primo giudizio sul pacchetto di liberalizzazioni (che, comunque, dovrà essere esaminato nel tempo con maggior cura e nei dettagli) si potrebbe affermare che questa maggioranza ha svolto un ampio giro di orizzonte ed ha focalizzato la propria impronta riformatrice a partire dal basso, dalle piccole cose, quelle che sembrano contare poco per i grandi analisti finanziari ma che, nel concreto, sono quelle che contano per i cittadini, specie i meno abbienti. Qualcosa di sinistra, insomma. Timida, per carità, ma con i tempi che corrono senz'altro benvenuta. Certo, su alcune grandi questioni (dai servizi all’energia) i ministri hanno chiesto tempo per meglio definire gli interventi, per capire bene cosa fare e dove, per evitare che le aspirazioni troppo liberal di alcuni si ripercuotessero immediatamente sull'occupazione e sull'efficienza dei servizi. Intanto, però, non si può non guardare con favore al fatto che d'ora in poi si potrà chiudere un mutuo senza pagare incomprensibili penali o sborsare cifre pesanti ad un notaio per estinguere un'ipoteca altrimenti ventennale. Che ricaricare il telefonino costerà meno, che non servirà fare chilometri per raggiungere un’edicola e che sarà persino possibile tagliarsi barba e capelli il lunedì. Niente di davvero rivoluzionario, ma basta poco, in fondo, per sentirsi meno vessati dalla burocrazia e dal sistema e, dunque, un po' più liberi.

Meno entusiasmo, invece, suscita quella norma (inserita all'ultimo tuffo e in piena notte nel pacchetto Bersani) che consentirà di donare soldi - per esempio - alla scuola dei propri figli. Un modo come un altro per consentire un risparmio sulle tasse, soprattutto per le grandi imprese. Ma viene da chiedersi: se si fanno entrare le aziende, le società, i privati insomma nel sistema gestionale degli istituti scolastici, poi che cosa chiederanno in cambio dei finanziamenti? Dalla scuola pubblica (dove, per carità, non funziona nulla) la società civile, lo Stato, ha in cambio solo un ritorno in capacità e cultura dei propri figli, futura classe dirigente del Paese. Privatizzare la scuola di base significa interrompere questo circolo virtuoso e lasciare nelle mani di chi ha più soldi anche la scelta della tipologia di istruzione da impartire alle nuove generazioni, in ossequio, forse, più alle leggi del mercato che a quelle della cultura e della formazione, dell'educazione e della crescita. Si ha dunque l'impressione che, con questa norma, lo Stato abbia voluto allontanare da sé uno dei compiti principali che gli spetta, ovvero la formazione di coloro che lo terranno in piedi domani. E senza alcuna contropartita.

Ma a parte questo punto oscuro, il resto dei provvedimenti possono comunque essere considerati un passo incoraggiante, prima di tutto a livello di immagine per il governo. Dopo una finanziaria tutta da dimenticare, il fallimento del vertice di Caserta da dove era emerso solo il nulla e le continue polemiche sui temi etici più scottanti, ecco riemergere una leggera espressione di ottimismo in quel cittadino-consumatore, che solo fino a ieri si era sentito solo ed esclusivamente cittadino-contribuente. Senza essere specialisti nella comunicazione, si tratta di un risultato non da poco. E se questo è quanto ha prodotto, alla resa dei conti, la cosidetta “guerra tra i riformisti”, allora che questa sia la benvenuta, avendo dato – di fatto – un risultato nettamente migliore di quella tra riformisti e radicali, alla quale, per altro, non riusciamo ad appassionarci. E che, anzi, ci preoccupa.