C'è una terza via nell'acceso dibattito sulla Finanziaria 2006, tra
"rigoristi" e "spalmisti", secondo la discutibile moda lessicale
di questi tempi: é "l'appello degli economisti: non abbattere il
debito, ma stabilizzarlo e rilanciare il Paese".
Il sito dell'appello, ben curato, ci dice molto delle tante adesioni, felice
corollario di un percorso passato per il convegno "Rive Gauche" del
2005, quando ancora la Cdl era al potere e ci si metteva per l'avanti nel delineare
una valida e chiara alternativa in politica economica, giunta infine all'odierno
appello.
Nel corso del tempo si sono aggiunti per strada svariati altri economisti (in
tutto una settantina), in gran parte provenienti dalle file degli economisti
radical, la cui piattaforma ha rilanciato qualche giorno fa il sottosegretario
allo sviluppo economico Alfonso Gianni, in un'intervista al Giornale. L'appello, che prende spunto da un articolo del 1998 di Pasinetti fortemente
critico con i parametri di Maastricht, considerando un mito o una follia il
dogma del 3% del deficit, si propone di delineare una linea d'azione alternativa
a quella ben nota del "rigore".
I suoi meriti sono tanti, primo fra tutti quello di mettere in chiaro, una volta
per tutte, che non vi è alcun obbligo europeo o "imperativo tecnico-economico"
che imponga un abbattimento immediato del debito.
In più sono tanti, negli ultimi anni, i casi di mancato sanzionamento
verso i Paesi membri che hanno superato il limite del 3% del decifit annuo e
forse bisognerebbe chiedersi come mai sono stati proprio questi i Paesi che
hanno conosciuto i primi timidi passi verso la ripresa.
A tutto ciò così probabilmente risponderebbero Almunia o la Bce:
"Quando l'economia ristagna possiamo chiudere un occhio, quando l'economia
riparte è doveroso varare finanziarie più rigorose".
Stando a quanto ricordiamo, in effetti, di occhi, di fronte alla finanza creativa
di tremontiana memoria, costoro ne hanno chiusi più di uno.
Ed è proprio l'attuale interventismo quotidiano della Bce che fa sbottare
persino il diplomatico Epifani, segretario della Cgil: "Non sopporto più
questa Banca Europea, perché non può avere in mente solo una cosa.
Dietro i numeri c'è qualcosa".
Il valore ideale di fondo dell'appello degli economisti è quello di rivendicare
una democratica riappropriazione, da parte di governi e parlamenti direttamente
eletti, di spazi di titolarità sulle scelte di politica economica, sempre
più messi in crisi da banche internazionali o comunitarie che nessuno
ha scelto, o potuto scegliere. Ma c'é anche da fare un'ulteriore precisazione.
Della crisi della politica e del trionfo dell'economia siamo tutti un po' responsabili.
Dagli anni '70 in poi, il pur storicamente motivatissimo sovraccarico di domande
ad una politica sempre meno rappresentativa, e sempre meno concepita come tale,
ha portato anche effetti nefasti.
Senza che la politica riuscisse a riformarsi in senso più rappresentativo,
quasi tutto il potere gli è stato sfilato, nel disinteresse di molti,
da banche e finanza, creando un ulteriore deficit di democrazia.
Questo si che è un deficit che è aumentato senza controllo negli
ultimi anni.
Ad ogni modo la critica principale dell'appello degli economisti al Dpef del
governo sta nel vedere nei tagli al welfare state e nella minaccia di
prossime dismissioni e privatizzazioni, la sola scelta politica possibile per
"fare cassa" nei tempi stringenti dettati dalla Bce.
Non solo questo sarebbe incompatibile con un governo che si voglia di centro-sinistra,
non solo penalizzerebbe l'elettorato che aveva votato un programma elettorale
preciso, di cui la finanziaria prevista è l'antitesi, ma gli economisti
dell'appello si domandano anche se tutto ciò non tarperebbe le ali al
rilancio, ormai inderogabile del Sistema Paese.
Si privilegia ancora una volta la logica dei tagli sull'investimento nell'innovazione
(specie nel settore tecnologico) ed in più si potrebbe comprimere la
domanda aggregata di beni, compromettendo ulteriormente i bilanci pubblici;
un cane che si morde la coda, è questo il messaggio keynesiano dell'appello.
Una politica economica di "lacrime e sangue" significa anche, ci
dicono, "rinunciare ad impiegare risorse reali e finanziarie in politiche
strutturali, utili al rilancio e allo sviluppo economico-sociale".
Per esempio aumentare i salari reali, e quindi il potere d'acquisto, "superare"
(come da programma) un sistema economico sociale incrostato nella sua precarietà,
lavoro nero ed evasione fiscale: dovrebbe essere questa la linea d'azione governativa.
Per questo l'appello degli economisti chiede che vengano apportati "indispensabili
provvedimenti coraggiosi ed incisivi", coniugando sviluppo ed equità
sociale. Fare questo richiede che ci si limiti all'obiettivo della sola stabilizzazione
del debito, rinunciando ad abbatterlo subito, con ciò dimenticandosi
del Sistema Paese, delle esigenze di innovazione strutturale e di quelle dei
ceti più svantaggiati, già duramente colpiti dalle politiche del
precedente governo.
Sarebbe poco credibile pensare che una simile piattaforma - per nulla sovversiva,
se non nell'ambito di una dittatura economica neo-liberista - possa essere adottata
da questo governo.
Tuttavia le tante adesioni, anche fuori dai tradizionali recinti, ci dicono
della sua importanza come piattaforma alternativa, di cui pure rendiamo conto.
Il dibattito sulla Finanziaria, tra le forze politiche e tra il governo e le
parti sociali è iniziato con largo anticipo, e ciascuno vi ha preso una
forte posizione.
Probabilmente il risultato definitivo sarà una Finanziaria con qualche
parziale accorgimento (sulle pensioni i governi cadono rapidamente), ma sempre
nel perimetro ideologico voluto da Prodi, o dettato dalla Bce e dal cosiddetto
filone "bocconiano" degli economisti.
Tra le parti sociali ci sarà chi si accontenterà e chi no, mentre
se non vi sarà nemmeno un barlume di concertazione (ma questo modello
berlusconiano è assai improbabile) il fronte sindacale marcerà
unito alla volta dello sciopero generale.
Come che sia, è per ora importante registrare che i sindacati hanno saputo
conservare la loro autonomia, fuori da qualsiasi logica da "governo amico",
propria di un vecchio sindacalismo corporativo.
Intanto sul fronte della lotta alla precarietà e della richiesta di
superamento della legge 30, si terrà un primo importante incontro il
4 Novembre a Roma, nell'occasione della manifestazione "Stop precarietà,
ora", che chiederà anche l'abolizione della legge "Bossi-Fini"
sull'immigrazione, e della "Moratti" sulla scuola.
Aderiscono alcuni partiti, ma soprattutto tanti pezzi di movimento che da anni
si battono su questi temi, e che l'8 Luglio 2006 si sono riuniti tutti insieme
per delineare una piattaforma di mobilitazione, col fine di far pressione sul
governo perché vari nuove riforme incisive in ciascuno di questi campi,
come da programma elettorale.