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di Ilvio Pannullo

Se negli ambienti finanziari di tutto il mondo è stata salutata come una vera e propria benedizione, una necessaria quanto salvifica boccata d’ossigeno per gli investitori e per un mercato, quello azionario, terrorizzato dall’eventualità di una generalizzata crisi di panico, per Bush è stata sicuramente l'ultima sconfitta, forse la più cocente di tutte. La nazionalizzazione di Fannie Mae e Freddie Mac, i due giganti dei mutui già partecipati dalle casse del Tesoro USA, peserà sulle finanze pubbliche, infatti, per oltre 200 miliardi di dollari oltre a segnare l’ineludibile insostenibilità di quella “ownership society” tanto cara agli ultraliberisti americani. L’ennesimo bagno di sangue per il contribuente a stelle e strisce è, infatti, l’inevitabile conseguenza del fallimento di quella “società di proprietari” teorizzata dal think-tank neoconservatore ed elevata a colonna sonora della disperata campagna per le presidenziali del 2004. La filosofia della promozione della proprietà che ha spinto molti americani a riempirsi di debiti per comprare casa e le banche a prestare valanghe di denaro senza fare troppo caso alla solidità finanziaria dei debitori, oltre a gettare le necessarie premesse ideologiche della cultura dell’indebitamento come stile di vita, ha fornito anche il necessario appoggio politico ad una gestione sconsiderata del mercato del credito. Le conseguenze di tutto questo, lungi dall’essere risolte, sono ravvisabili in quei 945 miliardi di dollari che il FMI certificò bruciati nella crisi dei mutui subprime; ovviamente, solo dopo aver precisato che la crisi non era ancora superata.

In definitiva un modo simpatico per dire che se il passato è stato un disastro per il futuro non c’è di che rallegrarsi. Ecco, dunque, nell’ennesimo capitolo di una storia iniziata quattro anni fa, sulle cui probabili conseguenze nessuno pone limiti né in termini di dimensioni né immaginando un orizzonte temporale, passato il quale, sarà possibile tornare a sperare in una solida ripresa.

“I rischi per il sistema finanziario erano inaccettabili”. Questa la motivazione con la quale ieri il presidente George W. Bush, dopo l'annuncio dell'operazione, ha spiegato le ragioni della decisione definita “storica”. Per una volta siamo tutti con lui. Un simile ricorso alle finanze pubbliche da parte di un’amministrazione tra le più eversive, conservatrici e ultraliberiste che la storia americana ricordi, nessuno lo avrebbe mai potuto immaginare.

Se poi l’ex amministratore della potentissima banca d’affari Goldman Sachs, ora ministro del Tesoro, Henry Paulson, arriva a definire un simile intervanto “il sistema migliore per proteggere i nostri mercati” e la stessa torre di comando della globalizzazione, il Fondo Monetario Internazionale, arriva a commentare con favore la scelta del governo Usa, vuol dire che la situazione è davvero storica, perché drammatica ogni oltre umana immaginazione.

Era l’ottobre del 2004 quando Bush affermò: "In questo paese stiamo creando una società di proprietari, dove sempre più americani potranno finalmente aprire le porte delle case dove vivono e dire benvenuto a casa mia, benvenuto nella mia proprietà”. Il think-thanker Grover Norquist - un uomo diventato famoso per lo slogan “Non voglio abolire il governo. Voglio solo farlo diventare così piccolo da poterlo affogare nella vasca da bagno” - predisse che la più importante eredità di Bush sarebbe stata la società dei proprietari e sarebbe stata ricordata “molto dopo essersi dimenticati di come si possa pronunciare o scrivere Fallujah.” Eppure nell’ultimo discorso sullo Stato dell’Unione, questo slogan (precedentemente presente in qualunque discorso) non è stato pronunciato. Nessuna sorpresa: a differenza del suo orgoglioso padre, Bush si è infatti rivelato il becchino della società dei proprietari.

Molto prima che la società dei proprietari conquistasse una facciata pulita, la sua creazione era infatti divenuta la chiave del successo per la rivoluzione economica della destra nel mondo. L’idea era semplice: se la classe lavoratrice avesse posseduto una piccola porzione di mercato -un mutuo per la casa, un portafoglio di azioni, una pensione privata - avrebbe cessato di identificarsi come classe lavoratrice ed avrebbe cominciato a sentirsi proprietaria, mostrando gli stessi interessi dei padroni. Questo voleva dire che i lavoratori avrebbero potuto votare per politici che promettevano migliori performance della borsa piuttosto che migliori condizioni di lavoro. La coscienza di classe sarebbe divenuta un lontano ricordo.

Questa era, infatti, la risposta ai blocchi posti a tutti quei leader che con la loro politica agevolavano i più ricchi. Il problema era facilmente sintetizzabile: le persone tendono a votare per favorire i propri interessi economici. Tuttavia, anche nei ricchi Stati Uniti d’America, la maggioranza delle persone guadagna meno del reddito medio nazionale e questo vuole dire che, inevitabilmente, l’interesse fisiologico della maggioranza sarà quello di votare i politici che promettono di ridistribuire la ricchezza dall’alto verso il basso. Per alcuni una tendenza pericolosissima, da stroncare alla radice.

Quindi cosa bisognava fare? Fu Margaret Thatcher a trovare per prima la soluzione. Lo sforzo venne concentrato sulle case popolari abitate in gran parte da elettori del partito laburista. Con una mossa ardita, la Thatcher offrì forti incentivi ai residenti per comprare a tassi agevolati gli appartamenti nei quali vivevano (all’incirca come fece Bush un decennio più tardi con i mutui sub-prime). Coloro che se li potevano permettere divennero proprietari, mentre al numero dei restanti inquilini che non potevano permetterselo, gli affitti raddoppiarono, con la relativa impennata del numero dei senzatetto.

La strategia ebbe successo: quelli che erano in affitto continuarono ad opporsi alla Thatcher, ma i sondaggi rivelarono che oltre la metà dei nuovi proprietari aveva cambiato partito passando ai Tories. La chiave era tutta psicologica: adesso si vedevano come proprietari e i proprietari tendono a destra. La società dei proprietari, come progetto politico, era appena nata. Tocca sperare ora che con la recente nazionalizzazione - sicuramente la più grande della storia americana - delle due società specializzate del settore dei mutui e la relativa decapitazione dei loro vertici (i loro capi Richard Syron e Daniel Mudd si sono dimessi) questa sia definitivamente morta per mai più tornare in vita.

Wall Street spera che questo sia l'ultimo scossone della crisi più grave degli ultimi 80 anni, quello che apre la strada alla ripresa. Ma nessuno è in grado di prevedere il potenziale sismico del terremoto. Il governo ovviamente scommette sull'effetto psicologico del salvataggio. La garanzia ormai esplicita del Tesoro dovrebbe arrestare la corsa a vendere titoli che aveva creato una situazione di emergenza. Se non sarà così, il governo dovrà gettare in una fornace enormi quantità di denaro prelevate dalle tasche dei contribuenti. O dovrà far lavorare a pieno ritmo la tipografia che stampa dollari. Pagherà comunque il cittadino, con le tasse o con l'inflazione. Questo perché sia chiaro che a pagare sono, in un modo o nell’altro, sempre gli stessi: gli ultimi.