di Liliana Adamo

Il 6 marzo scorso, dalle isole Canarie, è partita una spedizione di ricercatori e geologi inglesi, alla volta di un anomalo “buco nero” situato in fondo all’Oceano, tra i Carabi e Capo Verde. Ad un secolo e mezzo di distanza, è quasi d’obbligo ripensare al romanzo più avvincente di Jules Verne (scritto nel 1864), al viaggio profetico del professor Otto Lidenbrock, che, dopo aver decifrato un messaggio con caratteri runici, parte da Amburgo con alcuni improbabili collaboratori e si ritrova in Islanda, intrappolato nelle viscere del cratere Jokull, facente parte del vulcano Snæffels, per meglio dire, un tragitto che porta dritti al centro della terra. Una similitudine, quella tra il “Voyage au centre de la terre” e la traversata della “James Cook” che certo affascina e suscita nuovi interrogativi sui confini tra odierna scienza e le teorie d’appena un secolo, considerate pure rappresentazioni fantastiche, per di più è curioso osservare come, nella medesima avventura, si disegna chiaramente una speculazione legata allo studio della geologia, inerente alla “deriva” dei continenti, in altre parole, a quel movimento con cui le terreferme si muovono l’una dall’altra; una cognizione tremendamente realistica, introdotta nel sistema dei saperi soltanto nel 1910 da Alfred Lothar Wegener, dunque, ben 46 anni successivi alla prima stesura del romanzo di Jules Verne!

Geofisica, trivellazioni e fenomeni “trascendenti”

Prima d’affrontare il segmento scientifico relativo alla spedizione inglese, si ricorderà l’iniziativa della “Chikyu”, la grande nave giapponese servita per compiere ricerche al centro della terra, perforandola fino a settemila metri, per poi sondare fino a dodicimila metri, profondità mai violate con l’obiettivo d’esaminare test inediti sui meccanismi dei grandi fenomeni come la tettonica delle placche terrestri, le attività sismiche e vulcaniche. La missione, presentata nell’ambito del progetto Integrated Ocean Drilling Program, era formata da un team cosmopolita di ricercatori e se ne parlò copiosamente nel 2005, in vista della partecipazione per l’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia guidato da Enzo Boschi, con lo stanziamento di 75.000 dollari.

In realtà, l’embrione di quel progetto esclusivamente di dominio statunitense, nacque nel lontano 1968, con la sigla di Deep Sea Drilling Project. A quel tempo s’utilizzò una nave oceanografica divenuta una sorta d’epos, la Glomar Challenger, fu proprio grazie al primo “sonar degli abissi” che si ottennero prove inoppugnabili in campo geofisico circa la teoria della tettonica a placche e l’espansione dei fondi oceanici lungo le catene dorsali; grazie a quei successi al progetto s’ascrissero altre compagini dall’Europa e dal Giappone.

Il programma Sicis, curato dall’Istituto Nazionale di Geofisica e Vulcanologia e presentato nell’aprile dello scorso anno - con 28 milioni d’euro di stanziamento - rappresenta un altro sforzo per sottoporre a “tac” la superficie terrestre. L’area d’interesse è circoscritta alla Sicilia (Sicis: Struttura interna della crosta in Sicilia), i dati geofisici e biochimici sono rilevati da strumentazioni altamente tecnologiche fino a venti chilometri di profondità. Ricognizione costante per vulcani attivi come l’Etna, lo Stromboli e altri non meno “impetuosi” presenti nelle viscere delle isole Eolie, a bassa, media ed alta profondità ed intensificazione delle reti sismiche su tutto il territorio, in pratica, questi gli obiettivi del nostro secondo “viaggio al centro della terra”: carpire un sistema avvolto da una sorta d’arcano impenetrabile e ancora tutto da leggere per le leggi della geofisica.

La “James Cook” pronta a svelare un “rebus terrestre”

Da Tenerife, prima di prendere il largo verso l’Atlantico e permanervi per sei settimane, la squadra di Durham si è intrattenuta con alcuni giornalisti d’El Pais, il professor Roger C. Searle, portavoce degli altri dodici ricercatori, è consapevole che “conosciamo il lato oscuro della luna più e meglio rispetto ai nostri fondali marini…”. Il “buco nero” fu localizzato tra il Sud America e l’Africa fin da giugno del 2003, quando si eseguirono ben otto perforazioni che, però, non diedero grandi risultati; ma di cosa è formato il “rebus terrestre” situato nella dorsale media atlantica? Sappiamo soltanto di una fenditura tra le placche tettoniche larga cinque chilometri e profonda quattro, priva di crosta terrestre, dov’è riconoscibile senz’alcuna frapposizione, il cosiddetto mantello.
Secondo la teoria geofisica della tettonica a zolle, le placche che compongono il fondo marino, si allontanano mentre al loro posto dovrebbe generarsi un nuovo fondale composto dagli stessi materiali e strati superficiali, invece, ad affiorare dal fondo oceanico tra le isole caraibiche e Capo Verde, è lo strato sottostante: il mantello. Generalmente la crosta terrestre, il livello esterno del nostro pianeta, vale a dire dove posiamo i nostri piedi, è profonda mediamente sette chilometri ed impedisce l’accesso al livello situato sotto, al mantello e alle coperture rocciose che accludono il nucleo del pianeta. I ricercatori inglesi parlano di quella zona come “di una ferita aperta sulla superficie della terra” e sono pronti a penetrarne i segreti. La fenditura sarà trivellata per asportarne i campioni in tre zone distinte, anche se non si procederà esclusivamente con mezzi tradizionali, ma si farà uso di un robot con tanto di macchina digitale che trasmetterà immagini ad alta definizione direttamente alla nave.

Ansiosi di conoscere gli esiti definitivi? Ahinoi, passeranno degli anni, ma intanto persino il professor Otto Lidenbrock, nelle viscere del vulcano Snæffels, immerso con antichi manoscritti a decifrare messaggi runici, pare rivolgere lo sguardo (non senza una punta di gelosia) ai viaggi al centro della terra dell’ultimo centennio.

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