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di Marco Dugini

Mentre la polemica sul testo dell'Ucoii, che ha paragonato le stragi in Libano a quelle di sterminio razziale della Shoah, ha nuovamente infiammato il dibattito sull'integrazione dei cittadini non comunitari, Berlusconi parla in termini nostalgici di "Italia agli italiani", il ministro Amato propone una "Carta dei valori" democratici da sottoscrivere per ottenere la cittadinanza, alcune forze politiche minacciano prossime "invasioni", e si torna pure a parlare di politiche dell'integrazione, assimilazionismo, multiculturalismo, cioè concetti e modelli da lungo tempo dibattuti in sociologia. In questo caso il campo sociologico è assai interessante, in quanto scevro dalle strumentalizzazioni e dall'ideologia della paura più o meno politically correct cui ci ha abituato la politica, in particolare le formazioni dalle fondamenta culturali populiste e/o xenofobe.La distinzione tra i due campi, l'uno sociologico, l'altro politico, si vede bene attraverso le prese di posizione di chi li batte entrambi. Pensiamo a Giddens che anni fa, nel suo noto saggio Le conseguenze della modernità, sembrava cosciente dei cambiamenti strutturali imposti dalla globalizzazione, ivi compresi il decadere dello Stato-nazione, così come era stato inteso per secoli, e la necessità di mutare, in un sistema di "post-scarsità" di risorse, il motivo delle migrazioni: dalla morsa della fame al desiderio di realizzazione e di conoscenza dell'altro.
Questo Giddens che conoscevamo, è assai diverso da quello teorico "della terza via" di Blair, che sulle pagine di La Repubblica, nei giorni scorsi, ci ha fatto sapere che la sinistra, sui temi dell'immigrazione dovrebbe competere in protagonismo securitario con la destra.
Ad ogni modo, dagli anni '90 ad oggi, in sociologia una larga accettazione di una politica d'integrazione sulle altre non è mai stata cosa pacifica, con alterne infatuazioni per l'uno o per l'altro modello.

Il termine "multiculturalismo", usato per la prima volta negli anni '60 dal Free speech movement statunitense, ha assunto via via un ruolo di opposizione al modello del melting pot, dunque fondato sulla valorizzazione della differenza, sulla politica del riconoscimento e sull'affermazione del particolarismo culturale del singolo individuo sul sistema dei valori imposti alla società dalla cultura dominante.
Un conflitto dinamico per il riconoscimento della propria identità culturale nella sfera pubblica.
Ad ogni buon conto, il contrario esatto della "Carta" che Amato vorrebbe far sottoscrivere ai cittadini non comunitari.
Il multiculturalismo ha avuto alterne fortune ed è stato adottato, in una versione europea (più corporativista rispetto alle iniziali coordinate statunitensi), dalle democrazie nordiche prive di ceppi etnici dominanti, come Belgio, Olanda oppure la Svezia, che con le sue differenziazioni riconosciute, a livello regionale tra olandesi e frisoni, a livello linguistico tra olandese e tedesco e a livello religioso tra cattolici e protestanti, è un buon esempio dell'ideale di armonia e reciproco riconoscimento tra culture altre, cui il multiculturalismo anela.
Tuttavia quest'ultimo ha subito, nel corso del tempo, una serie crescente di critiche, da quella banale di essere solo una risposta buonista e politically correct ai problemi di fondo, a quella, senz'altro più fondata, di creare, anche involontariamente, ghetti etnico-culturali, con comunità etniche, linguistiche, religiose etc. che non si parlano tra loro; chiuse in se stesse.

Le altre vie europee all'integrazione sono state, tra le principali, il modello dell'universalismo repubblicano francese, anche definito assimilazionismo. Esso connette il riconoscimento di diritti agli immigrati alla condizione che questi ultimi assimilino i codici culturali nazionali, che non sono neutri ma propri di quella "pregnanza etica" (Habermas) che contraddistingue da sempre il repubblicanesimo francese, vale a dire libertà, uguaglianza e fratellanza, così come si sono storicamente determinati in Francia e delineati nel corso del tempo.
Questo vuol dire che i particolarismi culturali, linguistici, religiosi, pur concessi nell'ambito della sfera privata, restano privi di rappresentanza al livello della sfera pubblica.
Che questo sistema crei ghetti, e per di più senza minimi sforzi nell'attuazione di politiche del riconoscimento, non ci sono dubbi, e per di più la prospettiva di una Banlieue europea pare non desiderabile.

Il caso inglese, del cosiddetto differenzialismo liberale, che altri chiamano pluralismo ineguale, è decisamente antitetico rispetto a quello dell'universalismo repubblicano di derivazione illuminista.
Sia perché la Gran Bretagna ha una storia assai diversa, con un'identità nazionale assai meno marcata che in Francia, sia per i costumi, dato che in territorio britannico sono più comuni atteggiamenti di tipo individualistico, estranei a logiche universalistiche.
Il risultato è che la Gran Bretagna ha rinunciato ad assimilare i cittadini estranei alle tradizioni del ceppo etnico principale, mentre persegue la linea delle "due sfere", quella privata e quella pubblica, che è liberale e neutra, riconoscendo formalmente pari diritti a tutti e attivandosi per questi.
Nella sostanza però le altre comunità vengono considerate "diverse", in un clima non privo di alienazione e anche nella sfera pubblica, per esempio in campo religioso, la confessione anglicana gode di notevoli privilegi rispetto alle altre, con buona pace della pretesa neutralità.

Infine, un altro caso rilevante è quello tedesco. In Germania ci sono milioni di immigrati turchi e questa comunità immigrata rappresenta, a tutti gli effetti, la più grande in un paese europeo.
Il passato nazista ha sempre tenuto la società tedesca ben lontana da ipotesi assimilazioniste alla francese, che ricorderebbero precedenti tentativi di "germanizzazione"; ma sebbene il multiculturalismo abbia conosciuto una parziale ascesa, promossa in particolare dai nuovi movimenti vicini ai Verdi, il modello che ha prevalso fino ad ora è quello dei "lavoratori ospiti", in cui le implicazioni legate a questioni etniche, linguistiche, religiose, culturali, restano in buona parte in una condizione di disinteresse, mentre il cittadino immigrato risulta praticamente ancorato alla sola variabile del collocamento nel sistema produttivo nazionale.

Tutti questi modelli (compreso quello multiculturalista) e relativi difetti, si propone di superarli un recente progetto di legge, in forma partecipata, della Regione Toscana.
Il testo si propone di avviare un dibattito regionale e nazionale su come intervenire per garantire "accoglienza, integrazione e tutela" dei cittadini non comunitari.
I principi fondanti sono "l'affermazione del primato della persona" - e quindi dei suoi diritti inviolabili "indipendentemente dallo status di cittadinanza" - e la realizzazione di una società plurale, ma coesa: evitando ghetti multi-culturali, riconoscendo origini e valori di ciascuno, ma entro regole uguali per tutti, fondate sulle libertà individuali e collettive. L'impostazione quindi considera il relativismo culturale valido finché non passa sopra sacrosante libertà e diritti. Basti pensare al tragico caso di Hina e all'inammissibilità del delitto d'onore in uno Stato di diritto che, per altro, almeno nel caso italiano, è stato abolito solo recentemente.
Più concretamente, il progetto pone l'accento sulla creazione di un sistema di welfare per i cittadini immigrati, "non alternativo, né parallelo a quello esistente per i cittadini toscani", ma al contempo specifico, con azioni positive volte "a colmare la situazione di svantaggio derivante dall'essere cittadino in terra straniera".
Tale governance regionale, affiancata da un'opera di monitoraggio dell'Osservatorio Sociale Regionale, si propone, tra le altre cose, di delineare un quadro di programmazione istituzionale, di intervenire per garantire la parità sostanziale, promuovere la partecipazione alla vita pubblica "compreso il riconoscimento del diritto di voto", tutelare i diritti ed eliminare e prevenire forme di discriminazione e razzismo. Pari opportunità di accesso ai servizi, e riconoscimento delle differenze culturali, religiose e linguistiche, sono ulteriori finalità, certo in un quadro di diritti e doveri, proprio di qualsiasi tipo di cittadinanza.
Tutto rose e fiori dunque?
Certamente tutto il progetto si fonda sul principio di sussidiarietà, in base al quale spetta all'autorità locale più vicina alla comunità intervenire e gestire, per esempio in questo caso, l'integrazione dei cittadini non comunitari.
Tuttavia, se tempestività e conoscenza delle problematiche locali non sono in difetto, può destare qualche dubbio l'ipotesi che ci siano cittadini immigrati che detengono relativi diritti di voto in una Regione e non in un'altra, piuttosto che qualsiasi altra differenziazione di condizione politica, culturale, sociale, tra quelle precedentemente esplicate, a seconda della Regione in cui vivono.
S'intende che senza una cornice e una linea d'azione ben precisa a livello nazionale, l'idea a geografia variabile di "paese che vai, usanza che trovi", tale che per alcuni cittadini possa sembrare di cambiare Paese cambiando residenza da una Regione all'altra, appare assai lontana dal risolvere i problemi relativi all'integrazione, che certo sono tra quelli più importanti nel prossimo futuro globalizzato.
Certamente, però, questo progetto di legge ha il merito di smuovere le acque in senso non regressivo e di bussare alla porta del dibattito pubblico.