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di Mario Braconi

Intelligenza artificiale: è questo il Santo Graal degli scienziati cibernetici, che mettono le loro notevoli intelligenze al servizio dell’ambizioso e prometeico compito di creare una macchina ad immagine e somiglianza del suo creatore, dotata del misterioso crisma dell’autocoscienza, capace di apprendere e, chissà, magari anche di provare emozioni. Una strada impervia, certamente, ma oggi assai meno improbabile di quanto potesse sembrare solo qualche decennio fa: almeno così sostiene la rivista The New Scientist.

In un editoriale del 4 agosto, dal titolo “Evoluzione digitale e senso della vita”, il periodico di divulgazione scientifica dà conto del fallimento dell’approccio “top down”, partendo dal risultato finale: fallimento causato, prima ancora che dall’improba difficoltà del compito, da questioni d’indeterminatezza filosofica. E’ infatti impossibile definire in modo univoco ciò che si intenda, esattamente, con i termini “vita”, “intelligenza”, “coscienza”.

Non essendo chiari e condivisi i presupposti attorno ai quali costruire la potenziale futura “macchina delle meraviglie”, quest’ultima è rimasta prigioniera del mondo iperuranio. Più interessante, nonché fecondo, sembra il percorso “bottom up”, il quale mira a generare l’intelligenza artificiale mettendo al lavoro, mutatis mutandis, i meccanismi evoluzionistici - gli stessi che hanno prodotto l’intelligenza umana. Nessuna meraviglia: anche in questo campo si è finalmente compresa l’utilità delle teorie darwiniane rispetto ai dogmi creazionisti.

Protagonisti di questa storia sono gli Avidian, entità digitali generate dalla mente del professor Ofria, della Michigan State University. Pur essendo “creature” virtuali (stringe di codice, in effetti) gli Avidian si comportano in modo simile a forme viventi autentiche: infatti, fanno a gara per accaparrarsi quanto più “cibo” possibile. Niente paura, non si tratta di vero cibo: gli Avidian non saprebbero cosa farsene di un fumante piatto di lasagne, ma apprezzano immensamente dosi abbondanti di “computing time” (tempo da dedicare al calcolo). In questo almeno sembrano più saggi degli uomini, poiché comprendono quanto sia prezioso e raro il tempo in dotazione, agli uomini come alle macchine.

Desiderosa di mettere alla prova le capacità evoluzionistiche di questi semplici “animaletti” digitali, Laura Grabowski, dell’Università del Texas Pan-American, ha realizzato una matrice nel quale “allevare” gli Avidian. Immaginiamo una specie di condominio virtuale, il cui piano terra è occupato da Avidian: gli appartamenti del piano di sopra hanno dei frigoriferi più capienti e più pieni. E’ stato un successo: gli Avidian, infatti, si sono autoreplicati per circa cento generazioni, ed in quell’intervallo temporale ciascuno di esso è “vissuto” e “morto” nella stessa cella; finché uno di essi si è spostato sulla cella più “ricca”, dove si è “riprodotto” in modo più veloce.

Al termine dell’esperimento, è stato chiaro che gli Avidian tendono a spostarsi nella direzione in cui si trovano maggiori quantità di “cibo”. L’importante risultato sembra dimostrare che essi si evolvono in modo simile ai loro prototipi biologici (cosa che li rende tra l’altro molto utili ai biologi che li possono impiegare come “cavie”).

Per riuscire nel compito di “nutrirsi” sempre meglio, gli Avidian, questi “meravigliosi animali evoluzionisti da compagnia”, hanno dovuto “imparare” a confrontare la quantità di risorse in una certa cella con quella di un’altra, cosa che implica una forma, sia pur molto primitiva, d’intelligenza. La Gabrowski ha successivamente complicato l’esperimento, ad esempio inserendo nelle celle “istruzioni” per trovare le celle più “ricche” e perfino un’istruzione del tipo: “Ripeti quello che hai appena fatto”: gli Avidian sono stati in grado di “ricordare” il loro comportamento precedente.

Le conseguenze di questa scoperta sono notevoli, sia dal punto di vista della biologia che della computer science. Il comportamento degli Avidian permette di comprendere come il primo passo per un organismo chiamato a risolvere semplici problemi di navigazione in uno spazio, sia quello di evolvere una qualche forma di memoria di breve periodo. Allo stesso tempo il comportamento degli Avidian dimostra come la materia inorganica possa sviluppare una minima forma d’intelligenza in qualche modo paragonabile a quella animale ed umana.

Ironicamente, il progenitore di Avida (il mondo virtuale in cui “vivono” gli Avidian) non è altro che una specie di gioco elettronico per “geek”, Core Wars. Non si pensi a guerre intergalattiche o partite a SuperMario, per carità: qui i partecipanti (tutti programmatori professionisti) si divertivano a scrivere codice il cui obiettivo era quello di “spegnere” quello sviluppato dagli avversari e, chi fosse sopravvissuto, avrebbe potuto fregiarsi del titolo di vincitore.

Il biologo ecologo Thomas Ray intuì l’enorme potenziale di Core Wars per lo studio dei meccanismi evoluzionistici e, sulla sua base, realizzò Tierra, un mondo virtuale popolato da programmi che si auto-replicavano commettendo anche degli errori: i programmi avevano a disposizione un numero limitato di righe per compilare il codice e, una volta esaurito, dovevano sovrascrivere i più vecchi.

La cosa interessante è che, ad un certo punto, i programmi cominciarono a subire una mutazione, risparmiando spazio, comprimendo cioè le istruzioni e “rubando” intere routine di istruzioni da altri programmi concorrenti: è così che un programma di 80 righe si è auto-ridimensionato fino a raggiungere le 45 righe. Tierra è, in effetti, il vero padre di Avidia, anche se quest’ultimo è più complesso e, comunque, somiglia molto di più al mondo reale. Certo, il percorso è ancora lungo e accidentato, ma tra non molti anni potremmo forse vedere le prime vere forme d’intelligenza artificiale. Matrix non è stata mai più vicina.