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di Mario Braconi

Per combattere i pregiudizi legati all'appartenenza ad una razza, è necessario capire in base a quali meccanismi si formino: un contributo importante in questo senso viene da Andreia Santos dell'Università di Heidelberg, che, attraverso uno studio recentemente pubblicato, ha dimostrato l'esistenza di una relazione causa effetto tra paura sociale e razzismo. Per fare questo, gli studiosi del suo gruppo hanno individuato una categoria di persone "immuni" dalla normale diffidenza verso gli estranei tipica delle persone "normali".

Le persone affette dalla sindrome di Williams, un'anomalia genetica caratterizzata dall'assenza di una trentina di geni dal braccio lungo del cromosoma 7, facevano esattamente al caso loro: infatti, oltre a presentare delle fattezze fisiche particolari (fronte spaziosa, denti spaziati, mento piccolo, occhi allungati) e a soffrire di problemi vascolari più o meno gravi (il gene mancante, infatti, ha un ruolo anche nel mantenimento della robustezza e dell'elasticità delle pareti dei vasi sanguigni), hanno difficoltà ad inibire la loro tendenza alla interazione sociale.

Il difettoso funzionamento dell'amidgala e del sistema della visione specializzato nel riconoscimento facciale (la fusiform face area o FFA) e l'insufficiente interazione tra l'uno e l'altra, fa in modo che le persone con la sindrome di Williams dimostrino un'apertura ed una socievolezza fuori dal comune.

Ai 20 bambini di età compresa tra i 7 e i 16 anni con la sindrome di Williams, così come al gruppo di controllo (20 bambini normali), è stato somministrato il PRAM II (Preschool Racial Attitude Measure II), un test disegnato per determinare la presenza di preconcetti connessi alla razza o al genere nei bambini: i ricercatori leggono delle brevi storie i cui protagonisti vengono descritti con aggettivi positivi o negativi e chiedono ai bimbi di identificare il personaggio "buono" e quello "cattivo" su un libriccino in cui, ad ogni pagina, vengono rappresentate due persone di sesso e/o di razza diversa.

I bambini senza il danno cromosomico hanno dimostrato un bias (o preconcetto) favorevole ai soggetti di razza bianca nell'83% dei casi, mentre quelli con la sindrome di Williams lo hanno manifestato 63 volte su cento: quest'ultima percentuale viene considerata da Santos talmente prossima al 50% da poter concludere che, nelle persone prive di paura sociale, l'identificazione del "buono" e del "cattivo" avvenga in modo casuale, e comunque non considerando il colore della pelle.

Secondo il team dell'Università di Heidelberg che lo ha ideato, l'esperimento prova l'esistenza di una relazione tra paura sociale e stereotipi di razza, anche se non è chiaro in quale modo essa si sviluppi: è la mancanza di inibizione sociale dei malati di sindrome di Williams ad impedire la formazione degli stereotipi, ovvero, al contrario, è la loro impermeabilità agli stereotipi a renderli tanto socievoli?

Santos esclude che la notevole differenza dei risultati riscontrati nei due gruppi possa essere spiegata da fattori diversi dalla presenza o meno di diffidenza verso gli estranei: il livello di intelligenza e di sviluppo mentale, pure diversificati nel gruppo dei soggetti analizzati, non sembrano avere influenza, né si può sostenere che i bimbi con la sindrome di Williams non siano in grado di valutare le caratteristiche specifiche degli altri in senso assoluto; essi, infatti, hanno dimostrato in ogni caso una inclinazione favorevole alle persone del loro stesso sesso. A questo proposito, è interessante notare, infine, che i bambini malati e quelli sani hanno dimostrato bias legati al sesso del personaggio osservato assai simili: questo significa che la base neurologica della formazione dei pregiudizi sul sesso è diversa quella relativa agli stereotipi di razza.

Va comunque notato che, come ricorda Ed Yong sulla rivista Discover, non siano mancati colleghi critici sulla portata effettiva dell'esperimento della Santos, di cui evidenziano limiti statistici e metodologici. Ad esempio, Alyia Saperstein, dell'Università dell'Oregon, ritiene che assimilare al 50% il 63% di risposte favorevoli al pregiudizio pro-bianchi, effettivamente riscontrato nei malati di sindrome di Williams, può essere anche accettabile quando si analizzano pochi casi, ma teme che, incrementando significativamente il numero dei soggetti analizzati, esso tenda a pesare molto di più: cosa che renderebbe le risposte dei bambini con la sindrome di Williams mediamente molto più simili a quelle degli altri. Secondo Robert Livingston, della Kellogg University, inoltre, per capire il bias razziale, è necessario distinguere con maggiore attenzione tra stereotipi (basati sulle nostre credenze) e pregiudizi (conseguenza delle nostre emozioni e giudizi sugli altri).

Lasciando agli scienziati il compito di validare o smontare i risultati dell'esperimento e di capire se un giorno potremmo finalmente avere un farmaco che guarisca dal razzismo, all'uomo della strada resta un po' di amarezza, apprendendo che il meccanismo ideato dall'evoluzione per difenderci dagli attacchi di potenziali nemici è lo stesso che ci fa ammalare dal morbo ripugnante dell'intolleranza.