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di Liliana Adamo

Se nella vita e nella mente di un uomo si può celare un ginepraio da cui affiorano cause e motivazioni (vere o presunte) a decifrare il perché di un gesto talmente spropositato agli occhi di qualsiasi persona comune, allora, nella storia personale del soggetto in questione, nei comportamenti, nelle scelte, o in quant’altro possa ascriversi nella soggettività e nel carattere, il gap tra follia e controllo è sempre pronto a esplodere.

Trentanove anni, single, laureato in biochimica al Virginia Tech (già teatro di un massacro nel 2007), specializzato alla rinomata Herbert School of Medicine del Maryland e psichiatra dell’Us Army, dal 6 novembre scorso la vita e la mente del maggiore Nidal Malik Hassan, sono state esaminate e scandagliate pezzo per pezzo. Sbandierate ai quattro venti le origini palestinesi, la religione musulmana, il malcontento e l’avversione per la prossima missione al fronte iracheno, dove avrebbe sperimentato su di sé, lo stress e gli effetti devastanti della guerra, come in quei reduci assistiti durante il suo tirocinio con il grado di “counselor psichiatrico” al “Walter Reed Center”. Aveva perfino ingaggiato un avvocato per giungere a un compromesso con l’esercito degli Stati Uniti e quando l’accordo è stato rigettato, Hasan, non è andato in guerra, l’ha scatenata all’interno dell’esercito americano.

Certo, siamo a Killeen, in Texas, dove raptus omicidi e angeli sterminatori sono di casa: nel 1991, George Hennard jr, disoccupato, già arruolato nella Marina, bianco, omofobo e razzista, entra col suo pick up in un popolare ristorante self service e fa fuori ventitré persone prima di togliersi la vita. Nel 1993, nella vicina Waco, gli stessi agenti federali trucidarono settantaquattro, tra uomini, donne e bambini, asserragliati nel ranch dei davidiani. Si levano, di tanto in tanto, le diatribe per l’ormai arcinota deregolamentazione sul libero possesso delle armi, un “bene” d’uso comune, che, in pratica, implica tutti i substrati della società texana e non solo.

La stessa Fort Hood, la più grande base militare in territorio statunitense, detiene il record di soldati uccisi in Iraq e Afghanistan - 685 - a oggi. Nello stesso periodo, a Fort Hood, si sono suicidati settantacinque soldati, dieci, nell’arco di quest’anno. Tutta questa virulenza e disperazione hanno convinto il tenente generale Rick Lynch, a creare, all’interno della base, una struttura adibita al recupero per sindrome da stress post traumatico, il Resiliency Campus, che comprende un Centro Benessere Spirituale per la meditazione e un altro per il Potenziamento Cognitivo.

Insomma, propedeutica spirituale per affrontare gli orrori della guerra. Ma questa è solo una divagazione sul tema che s’intende trattare. Tornando a Nidal Malik Hassan, la matrice della strage sarebbe stata l’imminente partenza, oppure le discriminazioni subite da parte dei suoi colleghi in divisa, o ancora, il gesto conclusivo di una reazione personale, legata all’indole (del musulmano matto) e al momento difficile. Tranne che per Paul Joseph Watson del Prison Planet, nessuno, tra i promotori mediatici dell’establishment americano, sembra chiedersi se il medico psichiatra, autore della strage di Fort Hood, facesse uso di farmaci psicotropi, in una sorta di “auto-cura”, cui ricorrono molti degli stessi psicopatologi.

La somministrazione di farmaci psicotropi ai militari americani e la faciloneria con la quale questi prodotti sono impiegati anche in casi meno appropriati, sono ormai cosa nota. Ed è nota anche la casistica d’effetti collaterali in comportamenti che sfociano in suicidi e omicidi. L’uso indiscriminato degli SSRI, vale a dire, inibitori della ri-captazione della serotonina, è veramente azzardato nell’ipotesi in cui la depressione è di tipo post-traumatico, questa si affronta in terapia con supporti psicologici sostanzialmente diversi dalla farmacologia psichiatrica. Spingere il “malato” a uscire dal guscio in cui tenta di chiudere se stesso e il suo dolore con farmaci neurotonici che origineranno agitazione mentale e inquietudine (akathisia), sempre più pesanti da assimilare e da controllare, è come accendere una miccia a lenta combustione.

Il British Medical Journal, in un atto di coraggio, ha informato di tre studi clinici che indagano sul nesso tra impiego di farmaci antidepressivi, in particolare gli inibitori selettivi nel riassorbimento della serotonina (SSRI) e i rischi di suicidio e/o omicidio. Una revisione sistematica con approfonditi studi clinici è stata resa pubblica dai ricercatori dell’Health Reserch Institute, nell’Ontario. Ricercatori dell’University of Bristol e dell’University of London hanno compiuto successive analisi confrontando farmaci SSRI con il placebo nei pazienti adulti. Il risultato di questi screening è a dir poco sorprendente: l’esito è che la frequenza concernente l’ideazione suicidaria, l’autolesionismo, finanche l’omicidio, è stata enormemente sottostimata dalle case farmaceutiche e dagli studi precedenti.

Il rischio aumenta enormemente tra i pazienti di età uguale o inferiore ai diciotto anni, trattati con SSRI. E dunque se si dà una sbirciata alla letteratura clinica di questi antidepressivi, plausibile che ti si rizzino i capelli e se la medesima sbirciata si rivolge al volume d’affari delle case farmaceutiche coinvolte in quest’affare colossale, plausibile che ti si sbianchi anche il volto.

Sono motivazioni politiche, personali che rendono comprensibile l’ennesimo massacro? Può darsi. E’ chiaro, però, e su questo si alza un muro di silenzio se non di omertà, che in quasi tutte le sparatorie stragiste avvenute negli ultimi due decenni e cioè da quando l’uso dei farmaci antidepressivi è divenuto così massiccio e popolare, ogni volta l’omicida era sotto l’effetto di SSRI. Altra coincidenza, anche l’autore del massacro al Virginia Tech, Seung-Hui Cho, era sotto effetto di farmaci psicotropi.

Vogliamo andare avanti? Eric Harris e Dylan Klebold, artefici e ideatori del massacro nelle aule della Columbine, come il quindicenne Kip Kinkel, omicida dell’Oregon che assassinò i compagni di classe e i suoi genitori, erano sotto l’effetto del Prozac, notoriamente “pillola della felicità”, tra i più noti della nutrita compagnia degli SSRI. A Omaha, in Nebraska, Robert Hawkins che uccise con un fucile d’assalto otto persone prima di suicidarsi, aveva una storia personale puntellata da trattamenti psichiatrici per depressione e ADHD, controversa sindrome da deficit d’attenzione e iperattività; anch’egli, nel momento della sparatoria, era sotto Prozac. Così Jeff Weise, l’omicida della Red Lake High School, l’Unabomber, Ted Kaczinski, John Hinckley Jr, Byran Uvesugi, Mark David Chapman, Charles Carl Roberts, l’assassino della scuola Amish e Steven Kazmierczak, tutti erano sotto effetto di farmaci psichiatrici di nuova generazione o SSRI.

Ci si chiede se anche il maggiore Nidal Malik Hassan sia stato vittima di un processo perverso in cui gli affari dell’industria farmaceutica s’intrecciano con quelli dell’apparato militare, con l’incompetenza, l’analfabetismo di chi l’ha deciso. Lo psichiatra che spara all’impazzata contro chi doveva curare è la perfetta metafora che si ha oggi della psichiatria e della sua rete depressiva.