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di Mario Braconi

Fa discutere il film "Disctrict 9", uscito negli USA il 14 agosto (in Italia lo vedremo dal 2 ottobre). Chi non ama la fantascienza potrà anche snobbarla come intrattenimento per deboli di mente, ma questa strana pellicola offre diversi spunti di riflessione, quale che sia l'angolazione dalla quale la si analizzi: artistica, culturale o politica. Questa, in breve la storia: un'astronave aliena, a causa di un inspiegabile incidente, si arresta nel cielo della Johannesburg degli Anni 80; dopo un breve periodo di stallo, le autorità decidono di sequestrare il veicolo e rinchiudere gli extraterrestri superstiti in un ghetto sorvegliato da una milizia privata, la MNU (Multinational-United, parodia delle Nazioni Unite). Le creature, classificate come "lavoratori" (anche se vengono chiamati "gamberetti" poiché assomigliano un po' a dei crostacei) passano le loro giornate in un inferno fatto di disoccupazione, delinquenza e segregazione, a scatenare risse per le strade e a "farsi" di cibo per gatti (per loro è una droga). La MNU ha ora deciso di deportare i circa 2 milioni di alieni in una nuova area, il Distretto 10.

Wikus van der Merwe (Sharlto Copley, produttore ed attore sudafricano), è un agente della MNU, il cui DNA, a seguito di un incidente, viene alterato da materiale alieno. Vittima di un’ibridazione che lo mette in condizione di impiegare la sofisticata tecnologica bellica dei "non-umani", e costretto a sfuggire al suo datore di lavoro e ai suoi metodi brutali, finisce per rifugiarsi nella baracca di uno dei presunti leader alieni nel Distretto 9, dove apprenderà che spesso gli umani sono "mostri" e viceversa (cosa che in effetti tutti sappiamo dopo aver visto E.T.). Benché nel film, che rimane un prodotto commerciale, non siano presenti riferimenti espliciti al regime dell'apartheid, le allusioni al regime razzista sono talmente evidenti da risultare inevitabili.

Da un punto di vista economico, "District 9" è stato un autentico miracolo: costato la ridicola somma di 30 milioni di dollari anche grazie ad un cast senza star (per realizzare Spider Man 3 sono stati bruciati ben 250 milioni), ha raggiunto il pareggio nel solo weekend di lancio, in cui ha incassato 37 milioni (oggi siamo ad oltre 90 milioni). La regia è di Neill Blomkamp, ventinovenne sudafricano trapiantato in Canada, al suo esordio nei lungometraggi: dopo aver lavorato sin dall'età di 16 nell'animazione, prima di “District 9” ha girato alcuni brevi filmati legati ai temi del videogioco Halo della Microsoft e qualche spot pubblicitario. Quando la Universal chiamò Peter Jackson (regista de "Il signore degli Anelli") a produrre un lungometraggio basato sul videogioco, Blomkamp fu scelto come regista. Il progetto di Halo è però maledetto: pur avendo stimolato fior di cervelli (dallo scrittore Alex Garland al regista premio Oscar Guillermo Del Toro) non è mai riuscito a decollare. Anche se il film tratto dal videogioco più importante della Microsoft (almeno per ora) non vedrà la luce, tra Blomkamp e Jackson si è creata una buona chimica: così i due hanno deciso di realizzare un film a basso budget (da produrre in modo indipendente), basato su un cortometraggio dello stesso Blomkamp "Alive in Jo-burg".

Per quanto possano essere rimarchevoli le capacità di Blomkamp come regista (esperto realizzatore di falsi documentari o “mockumentary”) un film a basso costo difficilmente riesce a diventare un campione d’incassi. E qui entra in gioco l'artiglieria pesante della Sony, messa in campo grazie al gentile interessamento di Peter Jackson. La campagna di marketing virale ideata dalla multinazionale per lanciare "District 9" ha fatto storia: cartelli affissi sulle autostrade ("vietato caricare in macchina non umani, multe fino a 10.000 dollari"), sulle panchine ("panchina solo per umani") e alle fermate degli autobus ("fermata solo per umani").

Questo tipo di pubblicità, altamente e scientificamente "infettiva" ha sortito il suo effetto, attirando l'attenzione del pubblico e dei media. I falsi avvisi sono apparsi, infatti, molto prima della data di uscita del film, sulla quale la distribuzione è rimasta volutamente (e perversamente) sul vago, alimentando la curiosità, mentre - invertendo una tendenza consolidata nel business - sui media le scene più spettacolari sono state centellinate.

Si noti, per inciso, come la promozione commerciale si sia spinta ad evocare, tritare e risputare “luoghi” e situazioni che si credevano relegati nell’armadio degli orrori della Storia: autobus separati per bianchi e neri, panchine riservate a chi aveva il privilegio di nascere con la pelle più chiara sono infatti un bruttissimo frammento di storia americana (per non parlare di quella del Sud Africa ai tempi bui dell'apartheid). Una volta di più, vale il detto dell’imperatore Vespasiano, inventore della tassa sull’urina: “Non olet”.

Inoltre, “District 9" è sospettato di essere un film razzista. Nel plot, infatti, gli immigrati nigeriani impersonano spesso il ruolo dei "cattivi": nigeriani sono i signori della guerra, i killer, le prostitute e lo stregone e alcuni di loro sono cannibali. "Questa è l'Africa come se l’immaginano a Hollywood, giusto? I neri africani rappresentati come selvaggi degenerati che fanno sesso con non umani e desiderano gustare carne umana. Semplicemente disgustoso", commenta sul suo blog Nicole Stamp, regista ed attrice canadese, segnalando per inciso che il razzismo rende pure un cattivo servizio alla coerenza narrativa del film (ad esempio, se le prostitute nigeriane si accoppiano da anni con gli alieni, come mai la contaminazione del DNA avviene solo a seguito dell'incidente di cui è vittima Wikus van der Merwe?).

"District 9" è stato girato nella shanty town di Chiawelo a Soweto: un posto privo di acqua corrente ed elettricità, occupato da baracche di metallo quando non di cartone, in cui i bambini si divertono tirando calci ad una bottiglia di plastica nelle strade polverose. Per i suoi abitanti, l'arrivo della troupe di District 9 ha costituito un diversivo alle ore squallide bruciate nella miseria e nella desolazione, e per alcuni di loro anche un'occasione per raggranellare qualche rand.

Come è successo a France Mokoene, operaio non specializzato, che, durante la lavorazione del film ha ricevuto dalla produzione circa 14 euro al giorno. Ma l'inaspettata manna si è prosciugata e, ora che il film è nelle sale, gli abitanti di Chiawelo sono risprofondati nella miseria: il film che (per metafora) mette in scena il dramma delle varie Chiawelo del Paese macina milioni di dollari, mentre i suoi protagonisti non potranno mai permettersi nemmeno un biglietto del cinema.

Non solo: proprio come i 'non umani' del Distretto 9, gli abitanti di Chiawelo stanno per essere trasferiti in un complesso di abitazioni popolari a sette chilometri di distanza dalla shanty town. Anche se non tutti i residenti sono entusiasti, ed alcuni anzi vi si oppongono, in questa “deportazione” si legge più la cifra del progresso (fine delle baraccopoli, nuovo inizio in città) che quella del sopruso, un segno positivo che si fa strada dopo le false partenze di un Paese che, a decenni dalla fine della vergogna dell’apartheid, fatica ancora a dare il giusto ai suoi figli.

Non sorprende che la sicurezza a Chiawelo sia un problema serio; come riporta Sylvia Khoza, intervistata dal Guardian: "Questo posto non è sicuro, si registrano comportamenti criminali di ogni genere: rapine, stupri, assassinii. La gente del cinema era circondata da uomini della sicurezza". Anche il regista Neill Blomkamp ha un ricordo piuttosto negativo dei suoi giorni sul set di Chiavelo: in un'intervista, racconta che un veicolo del convoglio è stato sequestrato e poi rubato da un uomo armato.

Stupiscono però (e sono anche vagamente irritanti) le parole con cui descrive quei giorni difficili: "Ogni cosa diventava compicata. C'erano cocci di vetro e filo spinato arrugginito dappertutto e il livello di inquinamento era folle. E, in quel contesto, dovevi cercare anche di essere creativo." Si sarebbe tentati di concludere che, pur essendo nato ed avendo vissuto 18 anni della sua vita in Sud Africa, egli, dal suo ghetto per privilegiati bianchi, non abbia veramente visto il suo stesso paese.