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di Mario Braconi

Immaginate un software che, una volta installato (gratuitamente) sul vostro computer, vi consenta di sentire tutte le canzoni che volete, creare playlist personalizzate e condividerle con gli amici. Siete esigenti, e pretendete un catalogo ricco, dove trovare artisti di massa come materiale di nicchia. Ma siete anche ragazzi per bene e vi ripugna scaricare illegalmente da server pirati. E, oltretutto, siete anche un po’ a corto di soldi ultimamente e di spendere soldi in CD proprio non avete voglia. Se pensate che questo “nirvana” dei melomani sia poco più di un’idea platonica in un mercato come quello della musica digitale online, dove la Apple, con il suo i-Tunes la fa da padrone e dove, se vi va di sentire qualcosa di nuovo, vi tocca comprare (quasi) a scatola chiusa, dovrete ricredervi.

Esiste infatti Spotify, prodotto messo a punto dalla omonima società svedese fondata nel 2006 da Daniel Ek e da Martin Lorentzon: un servizio “peer-to-peer” proprietario e completamente legale, che consente di ascoltare in streaming (cioè, senza scaricarle) poco meno di 4 milioni di canzoni; un accorgimento tecnologico ha permesso di comprimere fino quasi a zero i tempi di buffering (cioè il tempo necessario perché un file da vedere e/o sentire in streaming si carichi). L’offerta commerciale consta di tre profili: free, account completamente gratuito, anche se è necessario sorbirsi un messaggio pubblicitario ogni 20-25 minuti di musica; day-pass, ovvero un passi giornaliero, senza pubblicità; premium, il servizio top, che, dietro pagamento di 9,99 euro al mese, consente di saltabeccare a piacimento nella immensa libreria di Spotify, senza spot e godendo di un livello di qualità più elevato rispetto agli altri profili dell’offerta (Spotify utilizza il “codec Vorbis q5”, di qualità gran lunga migliore del superato benché onnipresente MP3, con frequenza 160 kb per gli account gratuiti o giornalieri, e con frequenza 320 kb per il servizio a pagamento).

Ça va sans dire, il servizio gratuito, disponibile in Svezia, Norvegia, Finlandia, UK, Francia e Spagna, non lo è in Italia; dal nostro paese si può accedere solo a quello a pagamento. Non stupisce troppo: in un paese in cui le innovazioni che mettono in crisi lo status quo vengono ostracizzate in ogni modo ci si aspettava forse di permettere a dei ragazzini di ascoltare musica gratis?

Il principale difetto di uno strumento come Spotify è che si basa completamente sul computer: ad esempio non è possibile sfruttarlo su un lettore MP3. Tuttavia, come nota Neil Mc Cornick, critico musicale del quotidiano Daily Telegraph, “quando la telefonia mobile convergerà completamente con il Wi-Fi a banda larga, cosa inevitabile, sarà la fine per CD e musica scaricata (legalmente o meno) i-Tunes non avrà più ragione di esistere, come pure saranno obsoleti i negozi di dischi: la buona musica sarà dappertutto, avremo un immenso juke-box digitale nell’etere.”

Spotify sta negoziando con Apple e Google l’autorizzazione ad includere il suo software nella lista di quelli che si possono scaricare rispettivamente su i-Phone e sui vari Google-fonini (il cui cuore software è il neonato Android). Per quanto riguarda Apple, nonostante l’ottimismo dell’AD della società svedese, un via libera della casa della mela morsicata sembra quanto mai improbabile. Se infatti venisse concessa la licenza di utilizzare Spotify su i-Phone, cioè in mobilità, si verificherebbero diverse conseguenze indesiderabili per chi sulla musica fa i soldi veri: in primo luogo Spotify cannibalizzerebbe istantaneamente i-Tunes: trovate una persona che preferisca pagare per scaricare file musicali quando li può sentire a piacimento senza averne la proprietà giuridica…

Inoltre, da qualche tempo si sente dire che Apple, proprio per tarpare le ali a Spotify e a servizi simili, stia studiando un suo proprio servizio in streaming (è salutare non scommettere sul fatto che sarà gratuito, però…). Le compagnie telefoniche, infine, si troverebbero a gestire un traffico abnorme dovuto alla fruizione dei file in streaming: se si pensa che un i-Phone contiene diverse decine di Gigabyte di musica, si può immaginare con quale gioia una Vodafone o una T-Mobile si faccia remunerare a tariffa flat una simile giostra di traffico dati wireless, in grado di saturare velocemente la propria infrastruttura. In breve, dovremmo accontentarci di Spotify così come è ora, cioè fruibile solo quando il computer è acceso e collegato alla rete aziendale o alla ADSL di casa.

Una piccola nota di colore “politico”: in Gran Bretagna, il Governo, non a caso tacciato di essere “ossessionato da internet”, è al momento il più importante inserzionista pubblicitario di Spotify: al di là delle polemiche locali (i media di impronta conservatrice hanno stigmatizzato la nomina di un Direttore delle Campagne Digitali del Governo - 160.000 sterline annue - la cui “mission” è diffondere nello spazio virtuale il “verbo” di Gordon Brown), è interessante notare il dinamismo delle istituzioni britanniche che, lungi dal farsi intimidire dalla tecnologia, se ne servono per comunicare con i cittadini (anche se si può sempre chiamarla propaganda, specie quando il consenso è ormai un ricordo del passato). E’ però gradevole vedere un governo fare da “venture capitalist” di un progetto veramente rivoluzionario.

Qual è il rapporto degli artisti con Spotify? Mentre alcuni di loro hanno messo a disposizione su Spotify tutta la loro produzione (tra questi, Madonna, U2, Coldplay, Green Day), ad altri l’idea che il pubblico possa ascoltare il proprio lavoro senza pagare (o pagando pochi spiccioli) non è andata giù: è questa la ragione per la quale, su Spotity è impossibile trovare brani di Led Zeppelin, Metallica, Pink Floyd e ACDC (neanche dei Beatles, se è per questo, ma questa è un’altra storia, dato che le loro immortali canzoni non si trovano, per precisa scelta di viventi ed eredi dei Favolosi Quattro, su i-Tunes). Si tratta di una decisione miope, perché creare barriere di questo tipo non aiuta a contrastare il fenomeno del file sarin illegale sulla Rete un’attività che rappresenta circa il 60% del traffico totale.

Con il “modello Spotify, si può sentire un album gratuitamente ed eventualmente decidere di acquistarlo online o in un negozio. Gli artisti più intelligenti accettano questa sfida ad esempio, i Radiohead hanno messo in vendita online In Rainbows ad offerta libera? Si poteva scaricarlo anche a zero sterline! Ed in effetti, una recente ricerca di mercato, citata dal Times, conferma che gli utenti di siti come Spotify tendono a spendere in CD e download legale più degli altri. Con un’accortezza: lo fanno con maggior discernimento e cautela.

Il bello di Spotify è che ha trasformato milioni di abbonati in critici musicali: questo sembra preoccupare non poco i critici veri, che temono di veder ridimensionato il loro ruolo di magistri elegantiarum del rock. Annota con grande lucidità e un pizzico di autoironia Eamonn Forde, collaboratore di Times e Guardian: “Il cambiamento più rilevante quest’anno è stato che chiunque può ‘provare’ i dischi e [in un concorso musicale come il Mercury Prize n.d.r. puntare il dito sui membri della giuria se ritengono che abbiano sbagliato. Questo è solo un esempio di quello che sta succedendo nel mondo della critica musicale in generale. Sì, i critici continueranno ad avere un loro ruolo di filtro, valutazione e contestualizzazione della musica. La vera differenza è che, per comprare un disco, i consumatori non dovranno più fare un salto di fede alla cieca”. Anche per questa ragione, Spotify dovrà guardarsi attentamente le spalle.