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di Rosa Ana De Santis

In Italia sono 30 mila le bambine che vengono sottoposte a questa pratica selvaggia. A dirlo è il presidente della Federazione Italiana Medici Pediatri, Giuseppe Mele. Nel protocollo d’intesa con il Ministero della Salute firmato il 18 settembre scorso, l’obiettivo concordato è quello di combattere la circoncisione rituale clandestina, femminile e maschile. Quella che nella scorsa estate ha procurato la morte di due piccoli. Circoncisione e mutilazione femminile sono pratiche sul confine fra tradizione, storia e riti antropologici consegnati di madre in figlio per indiscussa eredità. Si potrebbe indugiare a lungo sulla dialettica tra le ragioni della cultura e quelle del pensiero morale universale. Sapendo già che è una disquisizione malposta o non sufficiente. Potremmo scomodare il rapporto e la tensione tra antropologia e filosofia, citare i teorici della sub-cultura o appellarci all’evidenza per cui in ciascuna cultura esistono degli aspetti tradizionali che vanno progressivamente superati, alla luce di una consapevolezza generale sulla cultura dei diritti universali. Un approccio che vale per tutti, anche per il nostro modello culturale. Affinchè non si cada nella costruzione di culture e non culture, affinchè questo non porti a tirar su un filo spinato contro i barbari che sia legato all’identità di una specifica cultura o di un’etnia o di un continente. Per non cavarsela con un giudizio spavaldo e soprattutto sbagliato del tipo ”sono islamici” o “sono africani”. Non è l’uno, non è l’altro. Anche se a volte sono africani e islamici, questa pratica ha radici altrove. Nella storia antichissima di riti e credenze.

Il metodo più giusto per ragionare su fenomeni di questo tipo sembra proprio sia quello di rintracciare quegli elementi trasversali alle singole culture che, nella loro attuazione, non possono essere sempre conciliati e giustificati con il sistema universale dei diritti inalienabili dell’uomo. Quest’ultimo però, seppure declinato nella diverse note culturali, non può essere mai violato o considerato ex post nella sostanza concettuale che lo fonda, per dare a ogni cultura e a ogni popolo un profilo di accettabilità secondo ragione. Rawls parlava di dottrine comprensive e ragione pubblica. Ed è indubbiamente nella fatica di questa intersezione che sta lo strumento per accogliere o rifiutare singoli aspetti di diverse culture. Correremo il rischio di essere additati come portatori di una cultura occidentale mascherata da pensiero universale. Correremo il rischio di rinvigorire il paradigma della cultura egemone, del pensiero forte. Correremo il rischio di dire che la condizione della donna, trasversalmente a epoche e popoli, soffre di una vessazione che non ha mai giustificazione culturale, ma che è sempre e solo frutto di forza e potere. Correremo il rischio, ma queste bambine vanno salvate.

Somalia, Nigeria, Ghana, Egitto, Etiopia, Emirati Arabi, Costa d'Avorio, Yemen, Oman, Malaisia e Pakistan sono tra i Paesi protagonisti della tradizione escissoria. Qui le donne sono infibulate e le bambine sono a rischio di mutilazione. Tra le diverse tipologie praticate, quella più crudele è appunto l’infibulazione, che comporta la cucitura della vulva con rimozione della clitoride, delle grandi e piccole labbra. Sono di solito le bambine intorno a 3-4 anni ad essere a rischio. Il tutto avviene senza pratiche asettiche o anestetiche e con utensili affilati di uso comune: rasoi, forbici o coltelli. Così intenso è il dolore provato e tanta è la forza che viene impiegata per tenerle ferme che spesso durante l’escissione le giovani vittime subiscono la frattura della clavicola, del femore, dell’anca o dell’omero. Questa tortura è considerata necessaria per poter essere accettate nella propria comunità e non essere discriminate. Questo chiedono le madri per le loro figlie. Per essere spose.

Quelle che non muoiono per emorragie o setticemia, sopravvivono con questo segno traumatizzante sul corpo e dentro. Rimarranno con le gambe legate per diversi giorni, avranno dolori atroci nei loro rapporti sessuali, soffriranno di dispareunia anche permanente, verranno de-infibulate nel momento del parto e nuovamente infibulate dopo. Così per ogni figlio. Una tortura che dura una vita intera. E’ l’espiazione, attraverso il dolore e la censura del corpo, della propria femminilità. Il castigo di una vita sessuale segnata dal dolore, parti difficilissimi, infezioni e dolori in onore del sacro valore della purezza. Questo significa essere donne infibulate. Essere pure. Ed è questo che spinge padri e madri a diventare carnefici delle loro figlie. E ancora una volta è l’introiezione del canone culturale ad aver trasformato le vittime nel veicolo che garantisce la sopravvivenza della barbarie tra le generazioni. Ed è anche agli uomini, padri e mariti, che bisogna parlare. Ma, prima ancora, alle madri.

L’Italia è il paese UE che vanta il più alto numero di donne mutilate. Il Centro di medicina preventiva delle migrazioni dell’istituto San Gallicano di Roma stima che in Italia siano circa 40-50 mila e che stiano decidendo se sottoporre le figlie al loro stesso martirio. Perché di questo si tratta. E’ difficile aiutare le donne vittime dell’infibulazione e importantissimo il ruolo delle mediatrici culturali. Spesso queste donne provano vergogna del loro dolore e degli effetti fisici che la mutilazione ha procurato sul loro corpo, complicata diventa persino una banale visita ginecologica.

Il Servizio di Medicina Preventiva delle Migrazioni, del Turismo e di Dermatologia Tropicale dell’Istituto San Gallicano nello sportello per le donne vittime di MGF cerca proprio di far emergere il fenomeno, quello che – sembra assurdo - nelle società occidentali rischia di scomparire nella cornice di discriminazione e in certa misura di “nascondimento” generale in cui vivono le comunità d’immigrati. Per il nostro Paese esiste una difficoltà concreta a monitorare e scongiurare il rischio che in totale clandestinità piccole bambine o adolescenti siano sottoposte alla MGF. Nonostante le restrizioni legislative e il divieto espresso e tutta l’attenzione prestata all’informazione sul tema, spesso tutto si consuma nella più assoluta clandestinità. Importante è finanziare ulteriormente la rete. Associazioni che tra loro e in modo congiunto con le strutture ospedaliere possano programmare visite e colloqui con singole famiglie o gruppi, campagne di informazione, incontri sul tema, interventi nelle scuole.

L’infibulazione è la violazione dell’integrità personale delle donne, è un abuso e una violenza. E’ anche la storia difficile dell’integrazione con le comunità dei migranti, le loro origini e tradizioni. Del resto lo stesso tema dell’integrazione - per fare un esempio se pur in un contesto molto diverso - è stato posto all’attenzione del Sanit di pochi mesi fa a Roma. Il Polo Oncologico IFO di Roma ha documentato numerosi casi di abbandono delle cure da parte delle donne immigrate cui vengono diagnosticate neoplasie a carico dell’apparato genitale. E’ certamente la necessità di non abbandonare il lavoro, le difficoltà economiche, ma non da ultimo è anche il problema del rapporto con il partner, con la vita familiare, con l’intimità e l’interpretazione di una femminilità irrimediabilmente alterata e mutata dall’avvento della malattia. E’ così che l’integrazione e l’incontro tra culture abbandona le sedi delle disquisizioni accademiche ed entra come lama di coltello nella vita, nella salute e nella cura delle persone. E’ per questo che la mediazione culturale non è una vanità o un orpello alla retorica dell’accoglienza e della solidarietà. E’ spesso la sopravvivenza, a volte la vita.