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di Carlo Benedetti

MOSCA. Grande ma scomodo e ingombrante, autore di opere letterarie ma anche di preghiere, figura carismatica fuori dal tempo attuale, spirito inquieto, slavofilo ottocentesco, mistico ortodosso, anni di lager e poi tonnellate di soldi con venti anni di pace nel Vermont. Ora Aleksàndr Isaevic Solgenitsin - nato a Kislovodsk l’11 dicembre 1918 - se ne è andato ad 89 anni nella notte del 3 agosto. La notizia è stata data dal figlio Stepan e secondo le sue parole la scomparsa è avvenuta per un “improvviso arresto cardiaco'', alle 23,45 ora di Mosca (le 21,45 italiane). Lo scrittore è così morto in Russia - come voleva - e cioè nel suo paese dal quale era stato espulso nel 1974. Ma era sempre riuscito - pur nell’esilio americano - a restare ancorato alle vicende sovietiche e russe. Aveva infatti consegnato alla storia opere di forte contenuto sociale e letterario, valide tutte per una rivisitazione delle vicende del Paese: dagli anni della Rivoluzione ad oggi, dai lager alle proposte per ricostruire la società. Ed è proprio per queste “caratteristiche” che è riuscito a segnare in profondità la vita sovietica passando (non per sua colpa) dalla condizione di dissidente ed emarginato a quella di eroe positivo, da profeta revisionista e castigatore a nemico giurato della rivoluzione da lui considerata come il baratro rovinoso di ogni società. E comunque alle spalle una vita non lineare, mai in sintonia con le esigenze dei tempi. Spirito ribelle? “Da ragazzo - aveva detto anni fa - non sapevo dove indirizzarmi; avevo inclinazione per la matematica e mi fu proposto il dottorato, ma non volevo dedicare tutta la mia vita alla matematica. Più di tutto mi attirava la letteratura, compresi però che la matematica mi avrebbe assicurato il pane quotidiano”. Poi la durezza della vita sovietica lo portò in quello che avrebbe definito come il “primo girone dell’inferno”: il lager, dove indossò sempre la solita casacca marcata SSH-232. Otto anni di lavori forzati in Siberia e tre di confino.

“Mi arrestarono - aveva dichiarato ad un giornalista che scavava nella sua vita - per la mia ingenuità. Sapevo che nelle lettere dal fronte era proibito palesare segreti militari, ma ritenevo lecito pensare. Scrivevo a un amico lettere dove tra l'altro dicevo apertamente quello che pensavo di Stalin, pur senza nominarlo mai. Da tempo lo ritenevo criticabile per aver tradito la linea leninista e responsabile dei disastri del primo periodo di guerra. Nella mia ingenuità scrivevo tutto questo nelle lettere”. Seguirono gli anni della detenzione e poi quelli della liberazione. Ma fu solo uno squarcio di luce nella sua vita.

Krusciov lo “utilizzò” come arma per la battaglia antistalinista valorizzando il suo racconto Una giornata di Ivan Denisovic. Successivamente lo scrittore, come altre persone invise al regime, verrà attaccato ricorrendo al medesimo vocabolario che si usava nei confronti dei vecchi nemici “borghesi” e dei nuovi nemici revisionisti di destra e di “sinistra” del socialismo sovietico ortodosso.

Si arriverà così - con un crescendo di critiche e di attacchi accelerati dalla caduta di Kruscev il 14 ottobre 1964 - alla espulsione di Solgenitsin dall'Unione degli scrittori avvenuta il 4 novembre 1969. E cioè quando la sezione di Rjazan dell'Unione scrittori, riunita in assemblea col pretesto di affermare la necessità di rafforzare la coscienza comunista degli scrittori, concluse la riunione con la decisione di radiare Solgenitsin “per comportamento antisociale, in contrasto gli scopi dell'Unione e per grave violazione degli articoli fondamentali dello statuto”. Una condanna senza appello. Caduta, tra l’altro, su una vita già segnata da una dura detenzione.

Seguirono le umiliazioni, ma anche il riscatto con l’assegnazione del premio Nobel. Poi l'espulsione dall’Urss. Tutto questo mentre nel mondo, negli scaffali delle librerie, si allineavano le sue opere - La casa di Matrjona; Alla stazione di Krecetovka; Per il bene della causa; La mano destra; Zachar Kalita; La processione di Pasqua; Minuzie; Il cervo e la bella del campo; Una candela al vento - e in particolare quelle fondamentali che si intitolano II primo cerchio; Divisione cancro; Agosto 1914; Arcipelago Gulag, Il vitello e la quercia, Il mestiere dello scrittore, Lenin a Zurigo, La ruota rossa...

Fu proprio nel momento di maggiore attività letteraria e si presenza sui media di tutto il mondo che il “Vate” - dall’esilio nel Vermont americano - decise di rientrare nell’Urss, in Russia. Arrivò e fu accolto da trionfatore con un pellegrinaggio epocale che si svolse in treno, dall’Estremo Oriente alla capitale. Profeta all’estero, ma scomodo nel suo Paese. Gli fu affidata una rubrica televisiva che registrò un certo successo. Ma poi la Russia delle grandi trasformazioni non lo sopportò più. Solgenitsin invitava a non cedere ai modelli dell’Occidente, a conservare l’identità russa. In pratica si riallacciava agli slavofili dell’Ottocento. Sognava una Russia “più cristiana di tutte le società umane” poiché indifferente a ogni cosa meschina. Ma fu costretto a prendere atto che le "cose meschine" avevano preso il sopravvento.

E così, a poco a poco, il russo Solgenitsin si ritrovò ad essere - per usare una definizione con la quale fu bollato Bulgakov - un emigrante interno. I “nuovi russi” del periodo post-sovietico non accettarono le sue dure critiche a Eltsin e i suoi messaggi per la ricostruzione di una nuova Russa "spirituale" e gli appelli a lottare contro quella pianificazione del mondo in chiave occidentale. Sempre, comunque, vedovo di una Russia scomparsa. Quella della monarchia degli Zar.