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di Giuseppe Zaccagni

Aveva alle spalle una ben nutrita serie di novelle e romanzi brevi tutti ambientati nella natìa Kirghisia, terra lontana e misteriosa, repubblica asiatica dell’immensa Unione Sovietica. Si era impegnato in un grande lavoro di ricerca storica ed intellettuale per collegare - forte di letture valide ed affascinanti - la vita e l’epopea nazionale del suo popolo kirghiso alla più moderna esperienza letteraria dell’Urss e dei suoi diversi gruppi sociali. Guardava a Mosca e scriveva sia in kirghiso che in russo. E nella Russia sovietica aveva fatto un ingresso clamoroso pubblicando un romanzo - “Il patibolo” - dove uno dei maggiori personaggi era Gesù Cristo. Un fatto insolito in un paese ateo e soggetto ad una severa censura soprattutto nei confronti delle tematiche religiose. Ma lui era riuscito a superare gli scogli dell’ottusità dei censori. Ora è scomparso in una clinica tedesca (dove era ricoverato da tempo) mentre nel suo paese si era già formato un comitato statale per candidarlo al Nobel per la letteratura. Cinghis Ajtmatov era nato il 12 dicembre 1928. Il padre, funzionario del partito bolscevico, era scomparso vittima delle repressioni staliniane. E per il giovane Cinghis la strada fu così quella della ricerca della verità e della affermazione di quei principi che furono poi alla base del XX congresso kruscioviano.

Mosca ricorda ancora quella sua pièce intitolata “L’ascesa del Fusjama” che - messa in scena al teatro Sovremennik - segnò un momento importante nella azione di condanna dello stalinismo e del modo di vivere di quegli anni. Ajtmatov si andò sempre più caratterizzando come uno dei figli del XX congresso, un vero cantore del disgelo kruscioviano. Ma la sua ricerca - tesa a profonde revisioni - non si fermò mai. Passò dai motivi legati ad una poesia della fantasia alla esplorazione delle radici esistenziali. Fu lui a narrare - sempre in un ben preciso contesto storico e con una forte coscienza critica - le vite di Dziamila e Danijar, quelle del ragazzo e della Madre-Cerva, di Tanabaj e del cavallo Gulsary. Erano sempre e tutti motivi di un mondo vasto ed arcano. Il mondo delle radici più antiche e profonde che andavano oltre la storia o la cronaca.

Poi il grande salto di qualità, quando nel 1986 scoprì ed esaltò i valori del cristianesimo e per Mosca fu uno choc (paragonabile, con qualche forzatura, a quello suscitato da Il maestro e Margherita di Bulgakov). Usciva, infatti, il suo romanzo “Il patibolo” presentato nelle pagine del prestigioso mensile letterario “Novij Mir”. E da quel momento Ajtmatov varcò i confini di quella letteratura tradizionale che caratterizzava l’Unione Sovietica. Perché definì il fondatore del Cristianesimo come "il più sublime simbolo morale". E in questo contesto aggiunse - anticipando e di molto le intuizioni gorbacioviane - che il voler interpretare la realtà "da posizioni classiste è anacronistico".

Nel “Patibolo”, prendendo spunto dal problema della droga, affrontò temi filosofici ed universali come la lotta del bene contro il male, alternando pagine improntate al più spietato realismo con altre nelle quali dominavano le figure di Gesù e di Pilato. E a quanti nell’Urss gli contestavano l’accostamento poco organico tra i canoni estetici del realismo e l’ispirazione etica e metafisica (fu il quotidiano dei giovani comunisti Komsomolskaja Pravda ad accusarlo di essersi lasciato andare a un flirt con il buon Dio) rispose che era del tutto naturale, per uno che si era formato sulla cultura europea, richiamarsi inevitabilmente, quando si trattava dei concetti della moralità, del bene e del male, alla figura di colui che, secondo la leggenda, era stato crocefisso sul Calvario.

Fu quello - disse lo scrittore ai suoi critici “sovietici” - il principio dei principi. Quello di una figura vivente perché, tornò a sottolineare, “tutto ciò che era stato prima, persone ed avvenimenti, sia pure reali, si percepiscono come un mito, mentre il leggendario Gesù, molto probabilmente inventato, è una figura vivente che diede una lezione sublime, di indimenticabile coraggio e di nobiltà”.

E ancora, Ajtmatov volle precisare - sempre in riferimento alla sua trattazione di Gesù Cristo - che “io, uomo che vive alla fine del secondo millennio, che è cresciuto nelle condizioni del socialismo, ho sentito il bisogno di rivolgermi a quella fonte universale. Noi abbiamo promesso molto al mondo, abbiamo promesso di rendere l’uomo libero e felice come mai prima, e abbiamo fatto qualcosa in questo senso. Eppure siamo lontani dal dare ciò che abbiamo promesso. Di qui la necessità di fare un confronto tra ciò che abbiamo e ciò che non abbiamo fatto. Un confronto con quanto ci è stato tramandato dagli albori dell’esistenza umana”.

A chi gli rimproverava ancora di aver presentato nel suo romanzo, come paladino del bene, non un lavoratore o un attivista del Komsomol, la gioventù comunista, ma un ex seminarista che, per giunta, era simbolicamente crocefisso dai trafficanti di droga, lo scrittore rispondeva deciso che il concetto dell’atteggiamento classista è destinato ad evolversi nel tempo. E chiudeva così la polemica ribadendo: “Sono convinto che ostentare il senso di classe, come non di rado fanno i critici, ridurre tutto al senso di classe è un anacronismo, è una volgarizzazione che paralizza la libertà di pensiero. Con una visione del mondo manichea non è possibile capire il mondo contemporaneo”.

Ecco perché nella Russia di oggi la figura e l’opera di Ajtmatov sono studiate in un quadro comparativo di forme d’esperienza sociale e individuale originate, appunto, dall’instaurarsi di rapporti con il sacro e il divino. Ajtmatov, più di tanti filosofi dell’era post-sovietica ha fatto comprendere, all’interno dei mutamenti storici, l’estensione e la profondità delle diverse religioni, chiarendone l’origine, la diffusione e le trasformazioni. Non c’è dubbio: la cultura mondiale perde uno dei suoi maggiori esponenti.