Stampa

di Sara Seganti

I contadini e i piccoli produttori agricoli hanno qualcosa da dire sul futuro dell’agricoltura e sullo stato di crisi alimentare che preoccupa gli osservatori internazionali. E lo hanno ribadito di fronte ai governi di tutto il mondo durante l’ultimo round di negoziati del Comitato per la sicurezza alimentare alla Fao, che si è concluso a Roma. Il coinvolgimento all’incontro di centinaia di associazioni e rappresentanti delle posizioni dei “piccoli” ha segnato una novità nella direzione di un ripensamento dello sviluppo dell’agricoltura, anche se per adesso non è che un passo simbolico privo di ricaschi pratici.

Le “linee guida volontarie sulla gestione responsabile della terra, dei territori di pesca e delle foreste" sono da mesi oggetto di negoziati che attraversano diagonalmente tutti i consessi internazionali: G20, Fondo monetario internazionale, Banca mondiale e Organizzazione mondiale del commercio, Il raggiungimento di un accordo definitivo a livello internazionale è stata rimandato a gennaio, e purtroppo si potrebbe aggiungere, vista l’urgenza di regolamentare la questione alimentare su scala mondiale seppure per via volontaria.

Gli Stati nazionali sono portatori di posizioni molto diverse tra loro e, se l’accordo è quasi stato raggiunto su questioni importanti come la decisione di sancire il diritto fondamentale al cibo e i diritti collettivi di usufrutto delle terre e dei mari, altrettanto non è ancora avvenuto, invece, per i punti più spinosi e che pure, però, sono anche quelli che potrebbero fornire una tutela più stringente del diritto di accesso al cibo da parte delle popolazioni più povere.

Le questioni in sospeso sono la definizione concordata di congrui indennizzi per evitare il fenomeno della sottrazione di terre fertili a popolazioni che finiscono per non ricevere nulla in cambio, il diritto all’informazione quale unica garanzia della reale comprensione degli scambi proposti e degli indennizzi offerti, l’accertamento delle violazioni dei diritti umani nei casi di popolazioni cacciate dalle loro terre o minacciate, la tutela del libero accesso all’acqua, al mare per la pesca, alle terre per la pastorizia e, sopra tutto, la regolamentazione del ruolo degli stati e dei privati come le grandi corporazioni e i fondi d’investimento nella produzione agricola. Non sono questioni da poco.

La storia recente racconta di un’accelerazione di processi che erano già in atto, amplificati con la crisi finanziaria iniziata nel 2007 fino a investire il settore agroalimentare come uno tsunami, tra questi speculazione sui mercati finanziari, crollo dei margini di guadagno dei piccoli produttori e la recente tendenza all’accentramento della proprietà di terre nelle mani di pochi giganti privati la cui produzione è destinata all’esportazione.

Quest’ultimo fenomeno chiamato land grabbing (accaparramento di terre ndr) e le tragedie alimentari che ha prodotto di recente hanno contribuito a dare uno scossone alla comunità internazionale. Le sue principali emanazioni, come la Fao e la Banca Mondiale, sono state da sempre tendenzialmente favorevoli, per tradizione liberista, a favorire la modernizzazione del sistema produttivo agricolo puntando su efficienza produttiva, investimenti privati e concentrazione delle terre a discapito dei piccoli produttori e della sovranità alimentare locale, dove con questo termine di intende la capacità di un paese di badare al proprio fabbisogno alimentare, oppure se si tratta del globo, della capacità di produrre, e distribuire, sufficiente cibo per tutti.

Il land grabbing è un’ipoteca sulla sovranità alimentare di molti paesi e, se non è solo una questione africana, è in Africa che si trovano i governi più compiacenti verso la valuta portata da corporation straniere. Il land grabbing, la speculazione sui mercati finanziari, la tendenza all’esportazione massiccia sono tutti fattori determinanti del perché sta aumentando il numero di persone che soffrono la fame (un miliardo di persone oggi circa mentre un altro miliardo è malnutrita), ma non esauriscono il lungo elenco di fattori che contribuiscono a creare questo stato di crisi alimentare.

Bisognerebbe citare anche il continuo aumento della popolazione mondiale, la riconversione delle terre per le colture destinate ai biocarburanti, il disboscamento delle foreste, l’overfishing, la tendenza a pescare più di quanto il mare sia in grado di sostenere e via di seguito. Come al solito, è un problema di sostenibilità, di rispetto ambientale, di redistribuzione delle risorse, di argini alla speculazione. E’ un problema di modelli di sviluppo. O di “sviluppo” tout court. E non é estranea a questo quadro la tendenza imperante del sistema capitalista alla formazione di concentrazioni monopolistiche che contano con il possesso di risorse, le tecnologie e i capitali necessari per piegare ai loro interessi l'economia globalizzata.

Tant’è che con la crisi del sistema capitalista diventa evidente la relazione che lega la volatilità dei prezzi delle materie prime alimentari al più generale sistema finanziario. La volatilità dei prezzi rende incerto ogni margine di guadagno anche per i piccoli produttori europei, oggi in difficoltà e non più in grado di affrontare la fluttuazione dei prezzi distorti dal gioco speculativo che si è riversato sulle commodities dopo il 2007. L’associazione italiana Crocevia ha portato all’attenzione i dati Istat che registrano nel periodo 2000-2010, anche in Italia, la sparizione di 700.00 aziende agricole con dimensioni inferiori ai 30 ettari a favore di aziende sempre più grosse.

Esiste una nuova via per ripensare la produzione agricola e la sovranità alimentare e “La via campesina” ne è uno degli interpreti più autorevoli. Si tratta di un movimento internazionale che rappresenta circa 150 associazioni di contadini, piccoli produttori e lavoratori agricoli di tutto il mondo e sostiene che la storia ha dato torto a tutti coloro, governi nazionali e istituzioni internazionali compresi, che sono rimasti convinti troppo a lungo che l’aumento della produttività e la concentrazione di terre in grandi imprese agricole avrebbe sconfitto la fame e la povertà.

“La via campesina” ci ricorda che le politiche alimentari messe in atto negli ultimi 20 anni sono sempre state sfavorevoli all’agricolutra contadina che, nonostante tutto, continua a nutrire il 70% della popolazione mondiale. Inoltre, dato che il 75% di chi vive in estrema povertà vive in campagna, favorire attraverso politiche miopi l’espropriazione delle terre aumenta la povertà delle popolazioni già povere innescando un’ulteriore spinta all’urbanizzazione e ancora più povertà.

Puntare alla sovranità alimentare, per “La via campesina”, significa difendere ovunque l’agricoltura su piccola scala, l’agroecologia e le produzioni locali. Per questo servono paesi in grado di garantire accesso all’acqua, alla terra, ai semi, al credito e all’educazione. Oltre alla protezione dall’importazione a basso costo che altera le piccole realtà locali. Valorizzare la produzione alimentare locale su piccola o media scala e la vendita diretta permetterebbe di intaccare nel profondo la fame, come in parte è riuscito a fare il Brasile di Lula.

Se “La via campesina”, insieme a tanti altri movimenti, è entrata strutturalmente a fare parte degli interlocutori Fao è una probabile conseguenza dell’elezione alla presidenza di Graziano Da Silva, proprio lui, l’uomo del programma brasiliano “Fome Zero” che può vantare parecchi successi raggiunti con il precedente governo Lula. Graziano si insedierà ufficialmente nel mese di gennaio, quando riprenderanno le discussioni del Comitato sulla sicurezza alimentare. Se dentro la Fao sarà davvero cambiata l’aria si capirà se si inizieranno a vedere risultati concreti, a partire dall’adozione di linee guida sulla sicurezza alimentare all’altezza dei problemi che devono aiutare a risolvere.